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Alla guida dell’Orchestra il maestro Stefano Ranzani. La prima recita in programma domenica pomeriggio
"Verdi? Femminista ante litteram. E il Duca di Mantova? Il personaggio più spregevole che Verdi ha disegnato". Così il maestro Stefano Ranzani dipinge ’Rigoletto’, primo titolo operistico del cartellone 2025 del Teatro del Maggio, mentre si accinge a salire sul podio della Sala grande alla guida di coro e orchestra. Domenica (ore 17) la prima recita, con la regia di David Livermore ripresa da Stefania Grazioli e un cast di primo livello. Daniel Luis de Vicente è Rigoletto, un ruolo che ha interpretato in undici diverse produzioni per oltre 60 recite. Celso Albelo e Olga Peretyatko vestono rispettivamente i panni del Duca di Mantova e di Gilda. Alessio Cacciamani è Sparafucile, Janetka Hosco è Giovanna. Eleonora Filipponi interpreta Maddalena, mentre Manuel Fuentes e Yurii Strakhov sono il Conte di Monterone e Marullo.
Ranzani, chiunque al mondo sa fischiettare ’La donna è mobile’…
"Certamente. Sembra una canzonetta allegra ma nella visione maschilista del duca essa è ‘qual piuma al vento’ (e la metafora erotica è palese), ‘muta d’accento e di pensier’. Dunque: devi startene zitta e neppure pensare. Un po’ come le donne talebane che non possono studiare o guidare la macchina o apparire in televisione. Devono solo rimanere a casa a fare figli mentre i mariti si prendono le più ampie libertà. Verdi dipinge il duca affidandogli un ruolo molto pesante, caratterizzato con fine ironia. Eppure lui resta vivo e vegeto mentre Gilda fa la fine che fa, ma tale è il melodramma: un paradosso di per sé. Tutta la vicenda è frutto di amori sbagliati: quello di Gilda per il Duca, ma anche quello di Rigoletto per la figlia. Perché l’amore deve essere libertà, non possesso. E c’è anche un terzo amore: quello di Maddalena, sorella del sicario Sparafucile, che infatuata di un mascalzone asseconda uno strano gioco del fato per cui Gilda finisce uccisa al posto del Duca. Tre rappresentazioni dell’amore, una peggio dell’altra".
Verdi qui esordisce con un tema tetro e funesto, quello della maledizione, il filo conduttore dell’opera…
"Rigoletto è un’opera mozartiana. Un’architettura perfetta, cristallina, ‘esatta’. Proprio per questo è di una difficoltà esecutiva inenarrabile. Ovvio che il pensiero di Verdi vada a Don Giovanni in un inedito ribaltamento di ruoli: il Duca libertino sopravvive mentre Monterone tuona come il Commendatore e se ne va a morte e Rigoletto resta impietrito dinanzi al cadavere della figlia. Verdi amò il soggetto de ‘Le Roi s’amuse’ di Hugo fin dalla prima ora. Sapeva bene che trattare un simile argomento avrebbe significato incorrere nelle maglie della censura ma andò avanti imperterrito, retrodatando l’ambientazione e molto giocando sui doppi sensi".
Che effetto fa tornare a Firenze dopo 15 anni di assenza?
"Il nuovo teatro ha ben altre potenzialità rispetto al vecchio Comunale, ma quello che mi ha più stupito è il livello del coro, dell’orchestra e dell’organizzazione. Una crescita stratosferica, ci tengo a sottolinearlo. Una squadra tecnica a dir poco eccellente. Complimenti ai fiorentini per aver creato una simile meraviglia. E complimenti anche al sovrintendente Fuortes".
Secondo lei Verdi, che padre non fu mai, si riconosceva nella figura di Rigoletto? E quanto conta Rigoletto nella sua carriera personale?
"Rigoletto è la proiezione del suo autore. In quest’opera Verdi mette moltissimo di sé: un potenziale padre amorevole di una figlia adorata. Per me Rigoletto è un punto d’arrivo, non di partenza. E forse non sono ancora arrivato al traguardo, non ho nessun timore a dirlo, perché tutte le volte che dirigo la stessa opera immancabilmente scopro cose nuove. Forse più profonde, forse no, ma comunque diverse. Questa volta staccherò tempi più lenti. Con calma: un nuovo respiro, più ampio".
Altre tre le recite in programma: il 18 e il 20 febbraio alle ore 20 e domenica 23 febbraio alle ore 15:30.