Firenze, 9 agosto 2024 – La Corte d'assise d'appello di Firenze ha reso nota la motivazione con la quale ha condannato per calunnia Amanda Knox a tre anni di reclusione già scontati con i quasi quattro passati in carcere.
Secondo i giudici «E’ un atto di accusa nei confronti di Diya Lumumba» il memoriale scritto dall’americana il 6 novembre del 2007 dopo essere stata fermata per l'omicidio di Meredith Kercher (per il quale è stata poi definitivamente assolta) con il quale lo chiamava in causa per il delitto al quale risultò completamente estraneo. I giudici hanno sottolineato che il testo «è stato redatto spontaneamente e liberamente come confermato dall'imputata».
«L'urlo straziante» di Meredith Kercher quando venne uccisa «è un fatto realmente accaduto» e una «circostanza puntualmente riportata nel memoriale» di Amanda Knox, «veritiera» secondo la Corte d'assise d'appello di Firenze. Per i giudici l'americana «era perfettamente consapevole dell'innocenza» di Patrick Lumumba perché «si trovava all'interno della casa al momento dell'omicidio e quindi ben sapeva che lì non c'era». E «quell'urlo straziante che nel suo racconto le imponeva di portarsi le mani alle orecchie e di rannicchiarsi in cucina nel tentativo di non sentirlo è un fatto realmente accaduto».
Per la Corte d’assise Amanda Knox accusò ingiustamente Patrick Lumumba dell'omicidio di Meredith Kercher «per uscire dalla scomoda situazione in cui si trovava, accusando un innocente per porre termine alle indagini, reputandosi in una posizione delicata e non potendo prevederne l'esito». Lo sostiene la Corte d'assise d'appello motivando la sentenza con la quale ha condannato per calunnia la trentasettenne di Seattle. Secondo i giudici Knox era «l'unica delle coinquiline di Meredith Kercher presente a Perugia la sera dei fatti e con la disponibilità della chiave d'accesso all'abitazione nella quale è avvenuto l'omicidio». Nelle motivazioni si sottolinea che «neppure nei giorni seguenti» a quando scrisse il memoriale «abbia chiarito agli inquirenti che Lumumba era estraneo alla vicenda, nonostante la consapevolezza dimostrata e il senso di colpa manifestato». «Il perdurare di tale atteggiamento segna una netta divaricazione dal comportamento volto alla collaborazione con gli investigatori, più volte rappresentato dalla difesa e dalla stessa imputata» sostiene la Corte.