STEFANO
Cronaca

Benelli, i cento anni del cardinale quasi papa Il suo passo indietro spianò la strada a Wojtyla

Divenne arcivescovo di Firenze nel ’77 dopo essere stato Segretario di Stato. Memorabili i retroscena del doppio conclave del ’78

Stefano

Cecchi

Veniva da Vernio, terra d’appennino a cavallo fra la laboriosità pratese e il pragmatismo emiliano, e non c’è da stupirsi che anche la sua fede sia stata semplice e coerente, senza cedimenti alle suggestioni del tempo. Giovanni Benelli, se un infarto non se lo fosse portato via a soli 61 anni nel modo particolare che vedremo, l’altro ieri avrebbe festeggiato il centenario e c’è da credere, in un tempo di pensiero debole e di relativismo, che lui sarebbe stato ancora lì a indicare, a costruire, a rappresentare un punto fermo della comunità cattolica. Perchè Benelli era uomo del fare che ha guidato le cose della Chiesa con la stessa sicurezza con la quale guidava un’auto (ai tempi della segreteria di Stato a Roma non volle mai l’autista e non era un fatto consueto).

Con ironia lo chiamavano ’Sua Efficienza’, non cogliendo in quel suo dinamismo non il desiderio di una affermazione personale ma lo strumento col quale aveva scelto di difendere gli interessi della Chiesa. Sì, Giovanni Benelli, figura discussa, fu un idealista nascosto dentro le vesti di un pragmatista. Si sbaglierebbe per questo a considerarlo una sorta di Andreotti con la tonaca. Perché, è vero, il Potere lo ha sempre frequentato da vicino: diplomatico vaticano voluto da Giovanbattista Montini, ha frequentato sedi apostoliche di prestigio come quella di Parigi e di Madrid, poi è stato nunzio in Senegal, quindi potentissimo sostituto alla Segreteria di Stato. Lo stesso, non è mai sembrato usare il potere come finalità del proprio agire tantomeno esserne logorato dall’assenza, animato piuttosto dall’idea di usarlo in funzione di una giusta causa. Quella della chiesa cattolica. Antimachiavellico nella città di Machiavelli, proprio il suo amore e la sua dedizione alla chiesa lo spinsero ad affrontare con coraggio temi delicati senza badare al proprio tornaconto o all’impopolarità. Come successe al tempo del referendum sul divorzio. Non si pensi che la Chiesa non sapesse all’epoca che il fronte del "Sì all’abrogazione" fosse minoritario nel paese e dunque destinato a perdere. Semplicemente nell’occasione Paolo VI e Benelli scelsero ciò che credevano coerente con i valori della Chiesa anche a costo di rimetterci sul piano personale. E Benelli in particolare sul piano dell’immagine pubblica pagò un prezzo altissimo, soprattutto nel campo dei mass media, che lui già da allora aveva capito centrali per la difesa di ogni causa, compresa quella di diffondere la parola di Dio.

A Firenze è stato arcivescovo solo per 5 anni, dal 1977 al 1982, lo stesso sulla città ha lasciato un segno profondo: l’impegno a favore del lavoro, la crescita delle scuole cattoliche, l’apertura al dialogo con la società, soprattutto quello spirito di solidarietà verso gli ultimi, fossero essi profughi (allora arrivavano da Vietnam e Cambogia) o tossicodipendenti, manifestato anche attraverso l’esempio e il sacrificio personale: Benelli si privò dei propri beni di famiglia versando il ricavato nei fondi dell’arcivescovado in favore dei diseredati. "Un uomo che è stato al servizio della Chiesa senza mai servirsi di essa", come bene riassunse Giovanni Paolo II. Di certo negli anni in cui fu arcivescovo, Benelli fu vicino al papato come mai nessun fiorentino lo era stato dai tempi di Lorenzo Corsini, eletto Clemente XII nel 1730. Nel conclave dell’agosto del 1978 fu infatti proprio Benelli, per superare l’impasse che si stava producendo fra il suo nome e quello del cardinale di Genova Giuseppe Siri, a proporre Albino Luciani come punto di mediazione. Situazione che si ripropose dopo appena 33 giorni, quando di nuovo lo stallo fra Benelli e Siri generò, grazie all’azione diretta del cardinale di Vernio, l’elezione di Karol Wojyila. Un uomo di fede profonda che non esitava a farsi da parte per la causa della fede. E di quanto questa fosse profonda né è esempio anche la sua morte. Colpito da infarto nell’ottobre del 1982, rifiutò l’ospedale e si chiuse nella sua camera dopo aver imposto a collaboratori e medici il silenzio assoluto sulle sue condizioni di salute. Restò così tre giorni, accudito solo da due suore irlandesi che l’avevano seguito da Roma, dal medico personale e dal segretario che ogni mattina gli portava l’eucarestia.

"Nessuno ha mai colto un lamento sulle sue labbra _ racconterà il successore Piovanelli _ Lo rivedo ancora nel letto: il volto sereno e disteso come quello di un bambino contento di essere nelle braccia del Padre". Volle insomma morire da monaco, solo con il suo Dio, Benelli. Volle entrare nella morte a occhi aperti, a testimoniare ancora una volta la sua fede senza tentennamenti e mai fine a se stessa. Una scelta coraggiosamente cristiana verso la quale credo che anche ogni ateo non possa non togliersi il cappello in segno di stima. Il settimanale cattolico Toscanaoggi ha chiesto nei giorni scorsi al Comune di intitolargli una strada. La cosa strana è che non sia stato ancora fatto.