Firenze, 6 febbraio 2025 – Poter garantire ai pazienti una qualità di vita migliore e a lungo termine. È questa la speranza nutrita da Marianna Palazzo, studentessa di Assisi vincitrice della borsa di studio del programma post-dottorato 'Gianni Bonadonna’ 2024. La giovane ricercatrice ha completato la specializzazione in Ematologia presso l'Università di Firenze, e adesso si trova a Boston, dove trascorrerà un anno al Dana-Farber Cancer Institute per condurre il suo lavoro di ricerca sui linfomi aggressivi.
La abbiamo intervistata per conoscere nel dettaglio le finalità del suo studio e le sue speranze sul futuro della ricerca medica.
Può spiegarci in parole semplici su cosa verte il suo progetto di ricerca e quali sono gli obiettivi principali?
“Il mio progetto di ricerca mira a studiare i linfomi aggressivi, in particolare i linfomi a grandi cellule B, che si localizzano al di fuori degli organi linfoidi, tecnicamente definiti extranodali. Notoriamente si tratta di malattie a prognosi peggiore rispetto al linfoma a localizzazione nodale e ad oggi non hanno ancora un approccio terapeutico differenziato o personalizzato sulla base dell’organo coinvolto, proprio perché non si conoscono le ragioni biologiche che determinano la localizzazione della malattia negli organi situati al di fuori del sistema linfoide. L’obiettivo del mio studio è, dunque, definire le caratteristiche genetiche e microambientali che favoriscono la localizzazione extranodale della malattia”.
Come il suo lavoro potrebbe contribuire a nuove terapie?
“Lo scopo principale è identificare potenziali anomalie che possano essere anche dei target terapeutici nuovi e funzionali a personalizzare la terapia di questi tumori, in funzione delle caratteristiche specifiche che ne determinano la localizzazione extranodale”.
Com’è stato l’impatto con il Dana-Farber Cancer Institute? Ci sono differenze nel modo di fare ricerca rispetto all’Italia?
“È stato estremamente arricchente. È un centro di ricerca e di cura prestigioso a livello internazionale e fornisce numerose occasioni di crescita, sia in termini di attività di ricerca in laboratorio, che in termini di opportunità relazionali: poter entrare in contatto con alcuni dei migliori ricercatori del mondo è stato estremamente formativo. La differenza nelle modalità di fare ricerca è sicuramente relativa alla possibilità di avere accesso a tecnologie estremamente avanzate, che consentono di poter condurre degli studi molto più complessi e approfonditi; ma è anche data dalla possibilità di interagire con un’expertise multidisciplinare, per esempio con bioinformatici di alto livello che lavorano al Broad-Institute di Boston, e quindi poter avere a che fare con esperti di altri settori che contribuiscono in maniera fondamentale alla comprensione e all’interpretazione dei risultati di ricerca”.
Ha intenzione di tornare in Italia dopo questa esperienza? Se sì, con quali prospettive?
“Ad oggi non ho una definizione chiara di quello che sarà il mio futuro, dipenderà anche dalle esperienze che farò fuori. Sicuramente mi piacerebbe tornare in Italia per poter portare da noi un nuovo modo di fare ricerca, e anche un’expertise di livello che grazie a questa opportunità potrò acquisire. La mia ambizione è quella di poter coniugare l’attività clinica di medico in ospedale con quella di ricercatrice in laboratorio, e quindi poter conciliare queste due anime che mi appassionano: prendermi cura dei pazienti e poter dare delle risposte a quelle che sono anche le domande che nascono dalle difficoltà che si incontrano in pratica clinica nel dover gestire delle situazioni complesse e a volte anche infauste”.
Cosa l’ha spinta a dedicarsi all’oncologia e, in particolare, alla ricerca sui linfomi?
“Ho sempre voluto fare il medico, e durante gli ultimi anni di Medicina mi sono appassionata particolarmente alla parte onco-ematologica, quella relativa ai tumori del sangue, perché la trovavo da un lato un ambito di difficile gestione, ma dall’altro anche molto soddisfacente per gli importanti avanzamenti terapeutici degli ultimi anni. Quello che mi appassiona di più è il rapporto tra la parte molecolare di genetica, che causa la malattia, e le interazioni con il sistema immunitario. Io infatti mi occupo dei tumori del sistema immunitario e di come lo sbilanciamento di quest’ultimo possa contribuire alla malattia così come possa essere un’arma di terapia contro la stessa; infatti, molti ultimi approcci terapeutici molto promettenti e innovativi sono di natura immuno-terapica. Anche per la mia tesi di laurea in Medicina ho lavorato su un particolare tipo di leucemia acuta, studiando come lo sbilanciamento del sistema immunitario contribuisse in qualche modo alla malattia. In questo senso i linfomi sono l’ambito dell’oncomatologia nel quale sia la parte oncologica che quella legata al sistema immunitario coesistono in maniera molto stretta: le cellule malate sono cellule del sistema immunitario specializzato, così come il sistema immunitario sano è alterato dal tumore stesso proprio in favore della trasformazione tumorale. Questo equilibrio mi ha sempre molto affascinata”.
Qual è la sua speranza più grande per il futuro della ricerca oncologica?
“Per quanto riguarda l’ambito onco-ematologico, perché io non sono oncologa ma ematologa, anche se mi occupo della parte oncologica dell’ematologia, è ovviamente la possibilità di curare tutti i pazienti. Oggi noi curiamo sempre più pazienti con approcci terapeutici innovatici e immuno-terapici; la mia speranza è poter fornire un trattamento che sia quanto più personalizzato ed efficace e meno tossico possibile per poter guarire le persone malate. In generale l’idea di poter comprendere, nel caso della mia ricerca, le caratteristiche genetiche, molecolari e microambientali di uno specifico tipo di tumori linfonodali può favorire ulteriormente la possibilità di personalizzare le terapie, così da fornire un approccio mirato che renda sempre più efficace la terapia a scapito di tossicità off-target, che vanno cioè fuori dal bersaglio tumorale colpendo organi sani e dando un danno al paziente. La mia speranza è quella di poter curare in maniera sempre più efficace ma soprattutto il meno tossica possibile, raffinata e diretta esclusivamente alla patologia, così da poter garantire non solo una quantità di vita ma anche una qualità di vita migliore a lungo termine”.