
La famiglia di Guidobaldo Passigli in un’immagine dell’epoca
Firenze, 7 novembre 2018 - Il collegio delle figlie del Sacro Cuore in via della Piazzola, il convento di San Marco, l’istituto Santa Caterina. E poi l’orfanotrofio di Peretola e il seminario minore di via Santa Marta. Sono quarantadue i luoghi in cui, a Firenze, trovarono rifugio gli ebrei durante le persecuzioni del 1943-1944. Una storia perlopiù rimasta nell’ombra, che adesso vede la luce grazie al volume La Chiesa fiorentina e il soccorso agli ebrei, curato da Francesca Cavarocchi ed Elena Mazzini e fortemente voluto dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.
Emergono storie toccanti come quella di Guidobaldo Passigli, che non aveva ancora 5 anni quando, con la mamma e la nonna, trovò ricovero in via del Guarlone, all’istituto delle suore del patrocinio di Perugia. «Mia mamma arrivò qualche mese dopo – ricorda Passigli – Prima, fu ospitata da una famiglia, amica di nostri vicini di casa. Ricordo bene che ero con altri bambini e che non dovevo mai rivelare il mio vero nome». Guidobaldo era diventato Giuseppe Dalmasso. E sua madre e sua nonna indossavano gli abiti da suora. «Ricordo il rombo degli aerei, nella primavera del 1944 – prosegue l’uomo – Stavano andando a bombardare il sud e noi, quando li sentivamo, scappavamo nei campi». Ma Guidobaldo ricorda soprattutto quando dei militi tedeschi, insieme ad alcuni italiani, entrarono nell’istituto. Volevano sapere se lì vivevano ebrei, ma la madre superiora fu eroica. Respinse i soldati. E salvò così tante vite. Poi, la Liberazione, che nei ricordi del piccolo Guidobaldo assume le sembianze di una via Por Santa Maria invasa dalle macerie e di via dei Bardi ridotta a un «piccolo camminamento presidiato dagli inglesi».
Umberto Di Gioacchino aveva due anni quando fu protetto nel convento delle suore di Santa Maria a Settignano. «Ho saputo dopo tanto tempo che i miei genitori erano ospitati sempre a Settignano. Dice che potevano vedermi in giardino, da una finestra. Ma la verità non la saprò mai», trattiene la commozione Umberto. «Un lavoro che ci ricorda l’impegno eroico di tanti religiosi, ma anche che, oggi come allora, gli italiani non si comportarono tutti allo stesso modo: ci fu chi difese i valori della persona e chi invece portò avanti un’idea razzista di morte», ha detto Matteo Mazzoni, direttore dell’Istituto storico della Resistenza.