Firenze, 12 luglio 2019 - «Ero a Vicchio, ma solo per curiosare. Ero stato con Pacciani e Lotti alla Boschetta, sia nei giorni precedenti che dopo il delitto. Passai in auto da Calenzano, ma seppi del delitto l’indomani». Parole, a verbale, di Giampiero Vigilanti, l’ultimo indagato per i delitti del mostro di Firenze. Ma una confessione di un presunto nuovo «compagno di merende», può non essere sufficiente a sostenere un processo. Perché certe ammissioni dall’ex legionario di Prato, Giampiero Vigilanti, registrate dai carabinieri del Ros, devono comunque essere verificate. Oggi, è pressoché impossibile.
Si scontra con il tempo, l’ultima inchiesta sui delitti del mostro di Firenze. Così, ventisei mesi dopo l’iscrizione sul registro degli indagati degli ultimi due sospetti, la procura di Firenze, «nonostante le approfondite indagini svolte», alza bandiera bianca, davanti a un quadro indiziario «fragile e incerto, non certo suscettibile ad assurgere a dignità di prova, né tale da essere in alcun modo ulteriormente corroborato con ulteriore attività investigativa».
«Tenuto anche conto del lungo tempo trascorso dai fatti», chiosa il procuratore aggiunto Luca Turco, chiedendo al giudice l’archiviazione del fascicolo che aveva ereditato dal collega Paolo Canessa. Le parti civili hanno trenta giorni per opporsi.
Ma, comunque vada, l’inchiesta dei carabinieri del Ros non è stata vana. Ci sono nuove certezze scientifiche, che entrano per la prima volta in questa storia infinita. Anche se, contemporaneamente, le dichiarazioni «inverificabili» di Vigilanti aggiungeranno mistero al mistero. Accanto a una sua probabile presenza, da lui ammessa, sui luoghi di almeno due delitti (sia nel 1981 che nel 1984 una macchina sportiva simile alla sua, rossa con il cofano nero, è effettivamente notata da testimoni, e indossava un anello che lo fa identificare nel ‘rossiccio‘ che fissava la vittima al bar), Vigilanti ha rifilato alcune «verità» che sfiorano la calunnia, visto che non hanno trovato riscontro. Indicando il suo ex medico curante Francesco Caccamo mandante del delitto del 1984, ha parlato di una gravidanza indesiderata della giovane vittima Pia Rontini quale movente di quel delitto. Gli investigatori hanno verificato: effettivamente, per un periodo la ragazza aveva lasciato Vicchio e la scuola per un soggiorno in Danimarca, ma non risulta nessun aborto. «I delitti avevano mandanti diversi, appartenenti a una setta di persone pervertite, che sceglievano la vittima femminile»: questo ha fatto mettere a verbale l’ex legionario. Perché?
Ma era nel dna, la granitica e quasi inattaccabile prova «regina», che gli investigatori dell’ultima inchiesta mostro affidavano le pur flebili speranze di una svolta. La genetica non è andata in loro soccorso. Non è stato ricavato nulla dai bossoli e dai proiettili – troppo «vecchi» e custoditi «male» negli anni –, e non è stata utile, dal punto di vista genetico, neppure l’ogiva rimasta protetta per trenta e passa anni dal cuscino della tenda delle vittime dell’ultimo delitto del 1985. Il dna di Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili ha fatto «match» da quel fazzolettino che dei curiosi di Prato consegnarono ai carabinieri: il sangue è della coppia, mentre i guanti rinvenuti vicini alla pallina di carta sarebbero di un soccorritore, essendo risultati uguali a quelli in dotazione a personale infermieristico.