Firenze, 23 agosto 2024 – Ivano G. è morto di stenti in una cella. Rifiutando le cure e i pasti per settimane, preda di turbe mentali che difficilmente trovano sollievo dietro in cancelli di un carcere. È morto all’ospedale di Torregalli, ma il suo corpo si è spento lentamente al centro clinico di Sollicciano mercoledì sera. Dal referto medico, la causa del decesso sarebbe la cachessia, ovvero un profondo deperimento organico che si manifesta con una perdita di peso, indebolimento fisico, alterate capacità psichiche, e può portare alla morte.
L’uomo – che era seguito dall’avvocato Claudia Baccetti – soffriva di gravi patologie psichiatriche, come il disturbo paranoide di personalità, era tossicodipendente, affetto da epatite C e, dopo alcune operazioni all’anca, non più autosufficiente e costretto su una sedia a rotelle.
Una storia di solitudine e disperazione, conclusasi nel peggiore dei modi. L’uomo, 63 anni, era originario di Firenze, non aveva famiglia, pochi amici, ma tanti conoscenti soprattutto nell’ambiente del Serd. Ha vissuto per anni in una casa popolare, poi il demone della droga ha preso le redini della sua vita. Spacciava, oltre a consumarla, e ogni volta che lo beccavano e lo assegnavano a una delle comunità sparse sul territorio, lui evadeva. Nel 2023 è poi arrivata una condanna per cumulo di pene a due anni e sei mesi, ridotti, su richiesta dell’avvocato e per la sua buona condotta, di qualche mese per un fine pena fissato a metà 2025. Da Sollicciano, purtroppo, Ivano non è uscito da uomo libero, ma steso su una barella in gravi condizioni. La procura di Firenze ha disposto l’autopsia sul cadavere, per avere un quadro clinico più preciso, visto che i non si è mai voluto far visitare. Aveva infatti deciso che non valeva più la pena lottare: le spire delle dipendenze, come quelle di un boa, si stringevano sempre più a ogni suo tentativo di reazione. E alla fine, ci ricadeva tutte le volte.
“Forse non è colpa di nessuno, ma sicuramente è una sconfitta per tutti – commenta l’avvocata Baccetti – Ivano non voleva starci lì dentro, me lo ripeteva tutte le volte. Sollicciano non era la struttura più adeguata per una persona nelle sue condizioni”.
Ma che alternative c’erano? “Poche, anzi nessuna – conclude il legale –, perché Ivano aveva una doppia diagnosi, cioè quella psichiatrica e la tossicodipendenza. In più non era più autosufficiente. Una comunità o un centro del genere, nonostante tutti gli sforzi, è stata impossibile da trovare. Manca una rete sociale per i più fragili”. Solo qualche settimana fa, Sollicciano è stato teatro di un suicidio di un detenuto di 20 anni, che provocò successivamente una violenta rivolta con materassi in fiamme e sezioni demolite. Due epiloghi diversi, ma in parte simili, per la volontà di entrambi, Ivano e il giovane, di mettere fine alle proprie sofferenze. E uscire, nel modo più tragico, da quell’inferno di cemento armato e ferro chiamato Sollicciano.