Perché oggi facciamo fatica a parlare il dialetto? Com’è cambiata la nostra percezione rispetto ad esso? Quali sono le ricchezze che queste varietà linguistiche possono ancora offrire a noi parlanti? Lo abbiamo chiesto a Neri Binazzi, docente di Linguistica all’Università di Firenze e coordinatore del podcast Borda!, ultimo step di un progetto di divulgazione nato per celebrare la diversità linguistica del nostro Paese.
L’idea è stata sviluppata all’interno dell’Unità di ricerca fiorentina dello SPOKE 2, costituita nel Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Unifi, la cui attività si inserisce nel quadro del PE 5 Changes Cultura umanistica e patrimonio culturale come laboratori di innovazione e creatività finanziato dai fondi Pnrr.
“L’obiettivo è restituire i risultati dei nostri studi alla cittadinanza non informata sulle questioni linguistiche: parleremo, dunque, di come funzionano queste lingue, di chi le usa, quali connotati hanno acquisito o perso nel corso del tempo. E il podcast ci è sembrato uno strumento idoneo a fare questa opera di restituzione”, ha detto Binazzi.
Borda! si propone dunque di allargare l’interesse nei confronti dei dialetti e delle lingue locali in un’ottica informativa, rivolgendosi non solo alla comunità accademica e scientifica, ma alla società tutta.
Cosa significa l’espressione Borda! e perché si è scelto di utilizzarla come titolo del progetto?
“È un’esclamazione quasi intraducibile, che a Firenze si utilizza tradizionalmente quando si assiste a un fatto che ci colpisce o che ci urta, anche se lievemente. L’esempio che si fa nel primo episodio del podcast fa riferimento a quando, per esempio, vediamo una persona che cade in terra davanti a noi: a quel punto diremo “Borda! L’è caduto in terra!”. Se questo episodio dovesse ripetersi una seconda volta diremo “Riborda!”: in questo senso può essere utilizzata anche inteso come “Ci risiamo”.
Dare come titolo un’espressione colorita come questa potrebbe far pensare al fatto che nel programma siano presenti una serie di riferimenti al lessico variegato dei dialetti, alle esclamazioni o a tutti quelli che sono i luoghi comuni della vernacolarità; invece la scelta è ricaduta su questa perché rimarca il fatto che i dialetti hanno un proprio repertorio, che l’italiano non ha. Il fatto che il dialetto sia un serbatoio contenente anche espressioni colorite e vivaci torna a farci pensare ad esso come possibile risorsa per arricchire anche il bagaglio dell’italiano”.
Ancora oggi vige un po’ uno stigma legato alle lingue locali; a volte, infatti, quasi ci si vergogna di parlare il proprio dialetto. Secondo lei perché?
“Con l’aumento della competenza dell’italiano piano piano anche lo stigma nei confronti dei dialetti si è attenuato. Fino a qualche anno fa chi veniva identificato come parlante dialettale era tendenzialmente una persona non scolarizzata, perché solo chi andava a scuola aveva la possibilità di entrare in contatto con l’italiano: quindi, chi parlava il dialetto, veniva considerato un’analfabeta. Oggi l’italiano si diffonde anche fuori dalla scuola e tutti possono entrare in confidenza con esso: questo, di conseguenza porta a un’attenuazione dell’idea che il dialetto sia la lingua degli ultimi.
Ormai non c’è più un uso integrale del dialetto come lingua: però il suo utilizzo oggi consente di produrre un senso di maggiore vicinanza tra gli interlocutori, di dare più calore a una determinata conversazione. Proprio l’anno scorso abbiamo avuto l’esempio di Geolier, che ha scelto di cantare in napoletano sul palco di Sanremo: con la sua canzone l’artista ha voluto rimarcare un senso di appartenenza, di vicinanza e di maggiore emotività. Sebbene abbia ricevuto diverse critiche, dalla sua scelta emerge che il dialetto è una dimensione a cui si può accedere quando si vogliono raggiungere determinati effetti e una risorsa complessiva che si può integrare con l’italiano.
L’idea del dialetto come qualcosa di cui vergognarsi è però, purtroppo, ancora molto radicata, al punto che, per esempio, i parlanti per vincere la diffidenza nei confronti della propria lingua locale dicono che non è un dialetto, ma una lingua”.
Sono contenta che abbia fatto l’esempio di Geolier. A me viene da pensare che se qualcuno cantasse in un altro dialetto, come accadrà quest’anno con TonyEffe che canterà in romanesco, la reazione del pubblico sarebbe diversa. Perché questo stigma è particolarmente legato ai dialetti meridionali?
“La lingua è sempre in qualche modo il riflesso del mondo che ci portiamo appresso. Il fatto che la realtà meridionale sia complessivamente meno alfabetizzata di quella settentrionale e che sia economicamente più depressa, porta all’idea che la lingua che rappresenta quella realtà sia di serie B, come lo sono i suoi parlanti, cosa che, ovviamente, non ha alcun senso. Tutti i connotati che tendiamo ad attribuire a una determinata società li riflettiamo poi indirettamente sulla lingua che quella società parla”.
Nel primo episodio del podcast si simula un’intervista al dialetto fiorentino. Nelle prossime puntate invece di cosa si parlerà?
“Nelle prossime puntate cominceremo a riflettere sulla ricchezza delle lingue locali. Già dalla seconda inizieremo a soffermarci sul concetto di bilinguismo e sull’idea che una persona bilingue sia linguisticamente e cognitivamente più ricca di una monolingue. Il bilinguismo, infatti, non è necessariamente legato alla diffusione o alla competenza attiva di due lingue di cultura (come italiano e inglese o italiano e francese ndr), ma è una realtà che può essere osservata anche sui dialetti o sulle lingue locali. Perdere il dialetto come L1, come lingua materna, può infatti avere delle conseguenze negative anche dal punto di vista della ricchezza cognitiva della persona”.
Lei ha anche curato l’edizione in fiorentino di Topolino, uscita proprio in occasione della Giornata nazionale dei dialetti e delle lingue locali. Questo progetto invece com’è nato?
“Questa idea è nata all’interno del gruppo editoriale Panini proprio sulla scorta di questa Giornata e si è pensato di curare l’edizione utilizzando quattro varietà: il milanese, il fiorentino, il napoletano e il catanese. In realtà quella dell’editore è stata un po’ una scommessa, tant’è vero che nessuno si aspettava il successo che il progetto ha poi effettivamente avuto. Quello che ci si è chiesti è se il dialetto sarebbe riuscito a reggere un’intera storia a fumetti, oltretutto calato in un contesto come quello della Disney Italia, in cui la lingua utilizzata è solitamente di un livello abbastanza elevato. Per arrivare a una dimensione di lingua parlata tipica del dialetto abbiamo dovuto fare un trasferimento importante da un livello formale a uno informale: è stato un lavoro complesso, in cui è stato necessario in alcuni casi inserire anche un lessico arcaico, ma alla fine ha funzionato”.
Perché i giovani non usano più il dialetto? (La risposta la potete ascoltare anche nella prima puntata del podcast Borda!)
“Ogni lingua, e quindi anche i dialetti, è a suo modo la voce di un mondo. Le parole non possono essere mai considerate separatamente dalle cose a cui si riferiscono: non perché le parole sono semplici etichette delle cose che designano, ma perché la lingua, anche con quelle parole, esprime la nostra connessione con la realtà. Proprio per l’intimità del rapporto che lega le parole alle cose, le parole del dialetto possono diventare esse stesse simbolo di una realtà che le giovani generazioni sentono e vogliono sentire come definitivamente superata. Molte parole dei vocabolari dialettali hanno spesso a che fare con una vita piena di stenti, di fame, di miseria. Le parole dialettali legate a queste realtà ce le dimentichiamo, ma siamo anche portati a considerare il dialetto con le sue parole come il corrispettivo linguistico della fame e della miseria: forse anche per questo lo allontaniamo da noi, perché è una lingua che sentiamo compromessa con una realtà che consideriamo superata per sempre e che ci dà quasi fastidio ricordare. Questo perché le lingue hanno un enorme valenza simbolica e evidentemente il dialetto è il simbolo di un mondo che nessuno ha più voglia di vivere, e nemmeno di ricordare. Per questo si perdono le parole del dialetto, solo perché elementi costitutivi di un repertorio che sentiamo come intrinsecamente compromesso con una dimensione dell’esistenza arcaica, non più al passo con i tempi”.