Milano, 11 gennaio 2025 – Nicola Tessaro ha 21 anni e fa l’aiutante in cucina in una piccola mensa aziendale. Nonostante questo, non potrà mai firmare alcun contratto di lavoro perché l’Inps non lo ritiene in grado di lavorare. Nicola è riuscito a convincere delle sue capacità il titolare dell’azienda, ma non i medici della commissione incaricata di stabilire se questo ragazzo possa o no essere iscritto al collocamento mirato.
Il suo datore di lavoro ha deciso che Nicola sa lavorare dopo averlo visto all’opera. La commissione ha deciso che “non è collocabile” studiandone solo i certificati medici, senza neanche prendersi il tempo di conoscere la sua esperienza. E che il luogo adatto a lui è un centro socio-occupazionale.
Rachele Crispo ha 19 anni, si è diplomata alle scuole superiori e, a differenza di Nicola, è stata dichiarata collocabile dalla commissione Inps. Ma con una raccomandazione di accompagnamento: che svolga un percorso socio-terapeutico che consenta di valutare quali siano le sue competenze. Detto altrimenti: a Rachele non è consentito imparare facendo, imparare lavorando, ma, a soli 19 anni, senza aver mai potuto svolgere e conoscere alcun lavoro, le è richiesto di avere e dimostrare doti buone per qualsivoglia attività lavorativa.
Niccolò Di Prima, infine. Lui ha 24 anni e ha deciso di non sottoporsi all’esame della commissione dell’Inps perché ha paura di essere dichiarato non collocabile. Il rovescio della medaglia è che in questo modo Niccolò, proprio come Nicola, non potrà mai firmare un contratto di assunzione.
Disabilità e diritto al lavoro: tre storie
Questo è il modo in cui ai giovani con disabilità si garantisce il diritto al lavoro e ad una vita il più possibile autonoma. A lavorare sono soprattutto i tribunali perché a questi ragazzi e alle famiglie spesso non resta che impugnare i verbali dell’Inps, se possono permetterselo. Tre storie diverse e uguali, quelle segnalate da Alice Imola, pedagogista attualmente nel comitato scientifico della Fondazione CondiVivere di Milano nonché responsabile del coordinamento pedagogico dell’associazione De@Esi e vicepresidente di Aemocom, il Centro per lo sviluppo del pensiero e del linguaggio di Bologna.
Nel dettaglio, Nicola convive con una disabilità cognitiva ed è di Vicenza. Le ore trascorse da aiuto cuoco non sono inquadrate come lavoro ma come un’attività formativa inserita in una convenzione siglata tra l’azienda e l’associazione De@Esi. Ne consegue, tra l’altro, che la retribuzione alla quale Nicola potrebbe aspirare non è, e non può essere, quella che di fatto riceve. Con tutte le ripercussioni del caso sulla possibilità di costruirsi un percorso di autonomia. Il ragazzo e la famiglia hanno deciso di impugnare il verbale della commissione Inps al tribunale di Vicenza.
Rachele ha 19 anni, è di Firenze e si trova in un limbo. Anche lei convive con una disabilità cognitiva seppur lieve. Le è stata riconosciuta una invalidità del 75% per effetto della quale ha diritto a ricevere appena 300 euro al mese. Fa volontariato per un’associazione che si occupa di assistenza, ha conseguito un diploma, vorrebbe lavorare ed è stata dichiarata collocabile, ma dovrebbe seguire un percorso socio-terapeutico perché se ne possano individuare le competenze. La sintesi di Imola, a questo punto, è efficace: “A questa ragazza è stato detto, da un lato, che può lavorare ma non in pieno e, dall’altro, che non ha una disabilità tale da poter avere un sostegno economico decente”. Questo è il limbo in cui è costretta Rachele.
Niccolò è di Firenze e sta lavorando in una nota catena della grande distribuzione. Ma, come detto, non ha un contratto di lavoro. Le sue ore al supermercato rientrano in uno dei percorsi individuati dalla legge 68 del 1999, sono codificate come inserimento socio-occupazionale. Questo significa che a retribuire Niccolò non è la catena della grande distribuzione ma i servizi sociali del Comune. E la retribuzione prevista da questo tipo di percorsi solitamente non supera mai i 300 euro al mese, sebbene la persona con disabilità lavori, lavori per davvero, lavori eccome.
Come possono diventare autonomi?
Torna l’interrogativo di cui sopra: come possono questi ragazzi costruirsi un percorso di vita autonomo e indipendente senza un lavoro che sia riconosciuto e retribuito come tale? “Al centro del nostro sistema, nonostante gli aggiornamenti normativi, c’è ancora un modello estremamente tecnico-assistenziale – spiega Imola –, vale a dire: un approccio difettologico, basato sa una logica di pre-requisiti, in cui si decide a priori l’attività da far fare alla persona con disabilità. E se non dimostra di saper fare abbastanza non può accedere ai contesti ordinari e l’unica opzione rimane il centro diurno.
Così per molte persone con deficit il futuro è già tracciato, all’interno di luoghi in cui trascorrere un certo numero di ore ogni giorno senza poter vivere, crescere e maturare nei contesti della quotidianità, insieme a tutti gli altri, senza avere la possibilità di intraprendere un percorso di vita autonoma e di cittadinanza attiva, a dispetto di quanto previsto dalla Convenzione Onu del 2006. Quando, invece, si aprono vere possibilità lavorative, ecco prevalere la caccia al cavillo, il rigore formale, anziché la logica di dare a questi ragazzi ciò di cui hanno diritto: possibilità di emancipazione.
L’accomodamento, più che ragionevole, sembra essere irragionevole: è la persona con deficit che deve accomodarsi ai servizi e non viceversa. Mentre ciascuno di noi si misura via via con l’esperienza, per la persona con disabilità è un continuo dover dimostrare senza poter fare esperienza, senza uno scambio reale con gli altri e col contesto. È semplicemente assurdo che ai ragazzi con disabilità sia richiesto di dimostrarsi competenti e abili prima ancora che possano cimentarsi in un’attività professionale, reale palestra di apprendimenti, che le valutazioni sulla collocabilità siano fatte sulla mera lettura di certificazioni mediche e che questi ragazzi non possano beneficiare dell’alternanza scuola-lavoro come i loro coetanei”.