Impruneta (Firenze), 2 luglio 2018 - Dario Capecchi non è uno sconosciuto per gli operatori sanitari del territorio. La sua cartella clinica dice “schizofrenia maniacale” e il suo caso è seguito dal centro di salute mentale di San Casciano. Ma come Dario stesso ha raccontato su Facebook, da tempo aveva smesso di prendere i farmaci. Si sentiva meglio, diceva. Così, di fronte all’esplosione della rabbia con la conseguente tragedia, ci si chiede se invece non fosse possibile accorgersi che il 43enne dell’Impruneta aveva uno stato mentale assolutamente precario. Tanto da portarlo ad accoltellare e uccidere il padre con la compagna. Il dottor Giuliano Casu è il direttore Dipartimento di salute mentale-dipendenze dell’Asl Toscana Centro. E la verifica di quanto accaduto è quanto effettuerà fin da oggi col suo staff.
Dottor Casu, si poteva evitare quanto successo?
«Prima di tutto ricordiamoci che queste tragedie avvengono anche senza che le persone abbiamo patologie psichiatriche. Insomma, la maggior parte di coloro che uccide è sana, basti pensare ai tanti femminicidi. Detto ciò, verificheremo che cosa sia successo, farò un’analisi attenta di questo caso e cercheremo di capire bene che tipo di presa in carico avevamo come Asl, che livelli di autonomia avesse il paziente. Quando accadono questi eventi avviamo sempre una modalità interna di verifica che si chiama audit, che prevede il coinvolgimento di tutti i professionisti coinvolti nel caso».
Lei intanto si è fatto un’idea?
«No, dico solo che di solito quando i pazienti smettono di prendere i farmaci le famiglie ci avvisano. Allora noi facciamo il possibile per contattarli e di reinserirli nel percorso di terapia. Oppure ci avvisano quando si accorgono che il paziente sta andando incontro a uno scompenso psicotico, con comportamenti inusuali, poco finalizzati. Su Dario c’è da capire meglio questo fatto delle terapie, se davvero e perché aveva smesso di prendere i farmaci. Dovremo appurare, se davvero è andata così e perché è andata così».
Spesso c’è la sensazione che le famiglie siano lasciate sole a gestire queste malattie mentali. Quali percorsi sono invece previsti?
«Molti, diversificati e personalizzati: dalle visite del medico in ambulatorio alla presa in carico multiprofessionale, da percorsi che prevedono l’inserimento in un centro diurno fino ad arrivare in fase acuta ai ricoveri in ospedale, o all’inserimento in una residenza specifica. Oppure cerchiamo di favorire il distacco dal contesto familiare».
In che modo?
«Passando ad esempio dalla soluzione dell’appartamento supportato. Abbiamo gli psicoeducatori che cercano sempre il coinvolgimento delle famiglie, con l’intento di migliorare il clima interno. Ma aiutiamo anche i pazienti ad andare a vivere da soli, sempre con la supervisione dei nostri educatori e degli infermieri. Molti non vivono più in famiglia. E l’autonomia abitativa è un fronte che ci impegna molto e sulla quale crediamo, perché quando ci sono problematiche di tipo relazionale vive fuori dalla famiglia aiuta i pazienti ad autonomizzarzi». Quindi percorsi collettivi e singoli per ciascun paziente? «Esatto, sono tante le tipologie e i percorsi di intervento che attiviamo a livello territoriale. E infatti parliamo di pazienti con Ptri, piano terapeutico riabilitativo individualizzato. E ognuno è seguito in modo multiprofessionale».