
Guido Miccinesi con Papa Francesco (dal profilo fb)
Firenze, 20 marzo 2025 - Gli aggettivi usati in modo “tautologico” (“sono laico”, “sono cattolico”) per sminuire la posizione degli altri non rendono un buon servizio alla comprensione delle cose, soprattutto quelle più delicate, in cui le semplificazioni prendono il posto alla forza di argomentare. La recente legge regionale sul suicidio medicalmente assistito ha aperto domande e ferite, pur volendo dare risposte e rendere esecutiva una sentenza della Corte Costituzionale. La polemica era inevitabile e, per ora, la discussione è stata condotta su un piano piuttosto civile ma, è stato notare, forse non con tutto l'ascolto necessario. La Chiesa, che è fatta di laici in grandissima prevalenza, considerata sui temi “sociali”, rivendica di dire la sua anche su temi sensibili come il fine vita e la vita in quanto tale. 'Suicidio assistito: aspetti medici, etici, giuridici' era il titolo dell’incontro promosso dalla Conferenza Episcopale Toscana in programma martedì 18 marzo alle 18 in Palazzo Pucci a Firenze (in via dei Pucci 2). Dopo i saluti iniziali dell’Arcivescovo di Firenze, mons. Gherardo Gambelli, del card. Augusto Paolo Lojudice, presidente della Cet e mons. Andrea Migliavacca, vescovo di Arezzo-Cortona-Sansepolcro, delegato Cet per la pastorale della salute, sono intervenuti Marco Rossi, medico, direttore della pastorale della salute della diocesi di Arezzo, Maurizio Faggioni, ordinario di bioetica, Pontificia Accademia Alfonsiana e Leonardo Bianchi, docente di Diritto costituzionale Università di Firenze. A moderare il convegno Guido Miccinesi, medico, epidemiologo, referente per la pastorale della salute per la regione ecclesiastica toscana e assistente spirituale negli hospice, in particolare in quello di Empoli. Proprio con Miccinesi affrontiamo alcune questioni sul tema del fine vita.
Con le cure palliative la morte non finisce nell'imbuto della sofferenza. Però a non pochi questo approccio sembra insufficiente, nonostante l'accesso alle stesse non sempre sia garantito. Che differenza c'è tra cure palliative e suicidio assistito?
“Le cure palliative non hanno motivo di essere considerate insufficienti. L'unico motivo di insufficienza è il fatto che non sono perfettamente compiute in tutte le parti del nostro Paese e forse neanche nella nostra regione, quindi che devono continuare a crescere. Però sono molto ben compiute sul piano teorico medico e sotto i profili dell'organizzazione e anche della normativa. Siamo quindi un pezzo avanti. Non si possono riscontrare motivi di insufficienza nelle cure palliative quanto alla capacità di accompagnare il malato senza dolore fisico, senza altri sintomi e anche senza sensi di abbandono di fronte a una morte inevitabile”.
Si rischia di muoversi su quello che qualcuno ha definito un "pendio scivoloso", passando da norme che dovrebbero essere restrittive a maglie più larghe, come è accaduto in Olanda? Alcuni vorrebbero decidere, con la ratifica dello Stato, quando è il momento "giusto" per morire invocando a questo scopo la "dignità".
“Le soluzioni diverse dalle cure palliative come la morte medicalmente assistita, comparsa prima in Europa sotto forma di eutanasia e ora affacciatasi nel nostro Paese come suicidio, non discendono dalla stessa ispirazione che sta alla base di un intervento medico sulla sofferenza, ma da esigenze diverse: da una ricerca di dignità da parte di persone che, per la loro particolare visione antropologica, ritengono che la dignità nella morte richieda la decisione del momento in cui morire e quindi chiedono in questo anche un'assistenza. Il numero di queste persone è esiguo, si stima un 4 per cento dei malati in situazioni irreversibili, ma non è qui il punto. Quello che si sta discutendo ora mi sembra portato avanti in punta di principio, non come un problema medico ma di principi di tipo antropologico. Qui si verifica il rischio di un 'pendio scivoloso'. E' stato ampiamente dimostrato che in Olanda la sperimentazione della morte medicalmente assistita, da 30 anni condotta con molta trasparenza e monitorata con cura, ha visto allargarsi le maglie della sua applicazione. Persone anziane che ritengono di avere ormai compiuto la loro vita hanno reclamato il diritto di essere anch'esse riconosciute affette da una sofferenza insopportabile, perché la loro vita è compiuta e non hanno altro davanti che la prospettiva di morire, dunque reclamano il diritto al suicidio assistito o all’eutanasia”.
Lei ravvisa nella discussione termini, scelte lessicali, che tendono ad ampliare il campo del suicidio assistito?
“Ho potuto osservare da vicino il continuo cambiamento delle parole usate per indicare questi fenomeni e anche una tendenza a costruire ambiguità e a spostare il peso delle parole stesse. Se questo stia avvenendo per il fatto che si usa il termine “suicidio” non lo saprei dire. C’è comunque una ragione tecnica per usare questo termine: si usa il termine suicidio perché dopo un periodo in Olanda in cui sembrava che si trattasse di un problema medico, che ci fosse cioè un problema morale per i medici, stretti nel dilemma tra il non far soffrire il paziente e rispettare la sua vita, si decise per la depenalizzazione dell'eutanasia reclamando che essa fosse parte della Medicina. Ora si è capito bene che così non è, o non è più, e che gran parte delle richieste di morte medicalmente assistita sono avanzate oggi per decisione personale, per desiderio di autodeterminazione. Spostando così i termini della questione è bene parlare di suicidio e non di eutanasia. Spero che questo aiuti a capire che non si sta parlando di atti medici, in alcun modo”. Perché si insiste tanto sul termine "suicidio" che sembra traghettato a una sorta di normalità, fino ad essere semplificato e accettato purché in un quadro ordinato? Le scelte "irreversibili" richiedono tempo, ma da più parti si invoca rapidità. “Quando una persona decide qualcosa sulla sua salute che abbia conseguenze irreversibili, anche quando si tratta di fare un intervento che si potrebbe differire, un intervento chirurgico, o una terapia particolarmente pesante, un ulteriore linea di chemioterapia per esempio, le scelte che può compiere sono complesse. Non basta dire che ‘sceglie il paziente’ come se il paziente avesse già una sorta di lista nel portafoglio nella quale sono scritte le sue scelte, le sue preferenze. E' necessario che quella persona riesca a entrare bene nella situazione e pescare nei suoi valori prendendo una decisione che potrà essere irreversibile. E' ovvio che questo richiede tempo. Invece c'e una certa retorica che si è accesa nelle ultime settimane anche in Toscana per cui bisogna fare tutto e fare presto e questo è veramente fuori luogo, è riduttivo della comprensione dell'umano. Si schiaccia ogni termine morale su quello dell'autodeterminazione. Si torna al punto di prima: il problema che stiamo affrontando non è medico, ma antropologico”. Qual è l'alternativa al suicidio assistito? “Le alternative le abbiamo. Sono sicuramente le cure palliative se intendiamo per alternativa essere accompagnati e aiutati a rendere il più possibile umana la propria morte. E' un orientamento che si è sviluppato in decenni e in Italia fortemente negli ultimi 20 anni. Le cure palliative sono considerate insufficienti solo da chi è nella posizione che ho spiegato prima, una precisa posizione antropologica. Le persone che commettono il suicidio assistito o chiedono l'eutanasia negli altri Paesi, nella maggioranza dei casi sono state anche seguite dalle cure palliative, ma ad un certo punto chiedono la morte medicalmente assistita non per una questione di sofferenza medica ma di dignità, per una particolare visione di cosa sia la dignità dell'essere umano. E' un problema divisivo. Secondo come vediamo l'essere umano e su cosa fondiamo la sua dignità avremo una posizione diversa sul suicidio tecnicamente assistito che, in ogni caso, non è un atto medico”.