CLAUDIO CAPANNI
Cronaca

Firenze, obiettivo sicurezza: “Dobbiamo trattenere 35 milioni di metri cubi”. La mappa del rischio

La segretaria dell’Autorità di Bacino: “Lavorare sulla prevenzione”. Ecco quali sono i quartieri dove l’acqua può fare ancora paura

Novembre, con la sua stagione delle piene, è alle porte

Novembre, con la sua stagione delle piene, è alle porte

Firenze, 28 ottobre 2024 – Il pericolo c’è ancora. Certo è più basso. Ma ogni volta che il calendario si avvicina a quel giorno, il 4 novembre, testa e occhi puntano sinapsi o pupille almeno per un secondo lì: sul livello dell’Arno. Questione di geni e di un ricordo, anche in chi non l’ha vissuto, ormai nel Dna, quello dell’alluvione del 1966: 160 millimetri di pioggia in 24 ore, ragguagliati sull’intero bacino con punte di 250 millimetri. Quel giorno l’Arno arrivò come una furia alla Nave a Rovezzano con una portata di 4100 metri cubi al secondo. Il doppio di quanto all’epoca la sezione di Ponte Vecchio fosse in grado di smaltire. Il risultato: 70 milioni di metri cubi che violentarono Firenze. Ma oggi possiamo dormire sonni più tranquilli? La risposta è nì.

“Le zone di Firenze – spiega Gaia Checcucci, segretario generale dell’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino Settentrionale – non sono cambiate dal ’66 a oggi. Sono stati fatti alcuni interventi puntuali in più (come quelli sulla Sieve ndr), c’è poi la diga di Bilancino che ha un minimo effetto di laminazione su Firenze. Ma quello di Bilancino non è stato un intervento a difesa del suolo per ridurre il rischio idraulico. Gli interventi da concludere invece sono le quattro casse d’espansione (Pizziconi, Restone, Prulli e Leccio) e l’adeguamento della diga di Levane. Per mitigare il rischio di un nuovo ’66 si devono trattenere su Firenze circa 35 milioni di metri cubi d’acqua”.

Oggi una grande fetta dei residenti vive in zone che sono considerate a media pericolosità idraulica, su tre classi (p1, p2, p3). Cioè? La misura, in una certa area, della possibilità che si verifichi un’alluvione capace di provocare dei danni. Le aree dove il pericolo è più alto (classe p3) oggi sono poche e più concentrate in riva sinistra. Quella più grande è il fazzoletto di campi e strade all’ombra della parte finale (in uscita città) di via dell’Argingrosso: via delle Isole, via dello Scalo, l’area del Poderaccio e la parte finale di via dell’Isolotto superato il ponte all’Indiano. In riva destra la maggior pericolosità riguarda invece il Mugnone con viale Corsica e la stazione dove attualmente è in costruzione la stazione Foster, ma anche viale dei Cadorna, il Romito, via del Romitino, via Richa e via Fabbri.

Massimo rischio anche per le zone vicino al Mensola come via del Guarlone e la Nave a Rovezzano. Il resto, incluso quasi tutto il centro dove nel 1966 in certi punti l’acqua superò i 4 metri, è in classe media. La notizia ’rassicurante’ è che le condizioni di tempesta perfetta sono molto rare. “Firenze – spiega Checcucci – non teme le bombe d’acqua, le cosiddette flash flood, ma è sensibilissima alla pioggia battente per più di 48 ore, come avvenne nel 1966. Al momento una delle opere già completate è l’abbassamento delle platee sotto Ponte Vecchio che ha aumentato la portata del fiume”. Intanto sono iniziati i lavori del progetto della Regione per mitigazione del rischio in città: sono previste spallette rialzate e panconi in caso di piena. “I panconi si possono anche mettere – dice Checcucci – e possiamo ’ingabbiare’ l’Arno, ma quando questo arriva a Scandicci o Lastra a Signa arriverà col doppio della potenza e su questo abbiamo qualche perplessità. Per questo motivo il legislatore nel 1989 con la legge decise di non ragionare in termini di confini comunali, ma di bacini”.

Ma quindi nel caso si verificasse un evento meteo come 58 anni fa, i risultati sarebbero gli stessi? “Il rischio non si può annullare, ma solo mitigare. Credo che non si perderebbero vite umane, visti i progressi fatti in termini di allerta e protezione civile. Dobbiamo cercare di diventare una regione che non viene ricordata solo per il grande sforzo messo in campo nel ‘66 e come protezione civile, ma diventare esempio di prevenzione: la prevenzione è la prima forma di protezione civile sfruttando eccellenze e grandi professionalità nella cultura del rischio”.