di Stefano Brogioni
FIRENZE
Per la bancarotta del Credito Cooperativo Fiorentino si spalancano le porte del carcere anche per Riccardo Fusi, ex presidente del consiglio d’amministrazione della Btp, un impero della grande edilizia nazionale, e grande amico di Denis Verdini. Accomunati dalle fortune del passato, ma ora anche dal medesimo, amaro destino giudiziario.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dei difensori dell’imprenditore, gli avvocati Fabio Lattanzi di Roma e Manuele Ciappi di Prato, e ha confermato la condanna inflittagli dalla Corte d’Appello di Firenze nel luglio del 2018. Cinque anni e dieci mesi, adesso definitivi. Il suo procedimento aveva camminato su un altro sentiero rispetto al filone che è già costato la detenzione di Verdini perché, a causa dell’indisponibilità dovuta al Covid di uno dei difensori, la discussione del suo ricorso era stata separata dagli altri. E messa in calendario ieri. Ma con un finale praticamente già scritto, visti i precedenti epiloghi.
Secondo la sentenza della corte d’appello, le disgrazie dell’impresa di Fusi e della "banchina" di Campi Bisenzio di cui era stato il padre padrone Verdini, andarono a braccetto. E quando la crisi del mattone, e il peso di alcuni investimenti sbagliati, cominciarono a mettere in crisi la Btp di Fusi, traballò anche il Credito di Verdini che gli aveva dato ampio credito. Troppo. La crisi di uno fu il fallimento dell’altro. E anche l’avvio di un’inchiesta della procura di Firenze che adesso, dopo tre giudizi, è giunta al capolinea. E da quel percorso non si torna più indietro.
Ma la parabola discendente di Fusi, non cominciò con la bancarotta della banca del suo amico politico, sancita dal tribunale nel 2012.
Ma qualche anno prima, quando Fusi e la sua Btp, impresa capace di aggiudicarsi appalti per le opere più importanti del Paese, si mescolò alla ’cricca’ romana. A quelli, come Francesco de Vito Piscicelli, che sghignazzavano quando il terremoto devastava l’Aquila.
Eppure Fusi, classe 1959, diploma di geometra, sembrava fatto di una pasta più genuina di quelli là, almeno a giudicare dalla battuta "toscana", sempre pronta, anche quando, non disertando quasi mai i processi, ascoltava pesanti richieste di condanna a suo carico. Del "sistema gelatinoso" che segnò quell’inchiesta dei carabinieri del Ros, lui si proclamava una vittima, visto che aveva perso gli appalti sia della Scuola Marescialli di Castello, che del Nuovo Teatro a Porta al Prato. Ma intercettazioni e telecamere nascoste, lo inquadrarono prima, durante e dopo quei pranzi romani dove si tessevano le tele degli affari.
La corruzione della cricca è anche la prima delle condanne (due anni, pena sospesa) che adesso rischiano di arrivargli una dietro l’altra.
I cinque anni e dieci mesi definitivi sono gli stessi inflitti a un altro amico di Fusi, suo socio, Roberto Bartolomei. A differenza di Fusi, Bartolomei sta scontando la pena già inappellabile ai domiciliari. Bartolomei ha infatti già compiuto settant’anni e il tribunale di sorveglianza ha accolto l’istanza del suo difensore, Gianluca Gambogi. I settant’anni potrebbero significare detenzione alternativa anche per Verdini. Se ne riparla a maggio.
Per Fusi, per ora, non paiono esserci scappatoie. Ieri pomeriggio, dopo la sentenza, il suo telefonino era già spento.