di Stefano Brogioni
FIRENZE
"Ho visto un comportamento eccellente dei soccorritori e di Careggi. Similitudini con il caso Astori? L’unica cosa che posso dire è che uno era in campo, l’altro a letto. Per il resto sono stato sempre in silenzio, non ho mai parlato di quella vicenda e ancora non me la sento di parlarne".
Poche e cortesi parole al telefono, quelle di Giorgio Galanti, l’ex direttore di medicina sportiva di Careggi che certificò per l’ultima volta l’idoneità agonistica del difensore viola e della Nazionale prima della sua morte, avvenuta nella stanza dell’albergo Là di Moret la notte prima della partita contro l’Udinese, in programma il 4 marzo del 2018. Almeno per ora. Due sentenze dicono che non ha colto alcuni segnali dalle prove da sforzo effettuate durante le visite di idoneità di Astori, effettuate nel luglio del 2016 e del 2015: un anno la pena inflittagli. Non ha perso la speranza nella giustizia. Proprio in questi giorni, i suoi legali, gli avvocati Sigfrido Fenyes e Tullio Padovani, hanno presentato il ricorso in Cassazione: l’ultima speranza per ribaltare o modificare i verdetti emessi sia nel primo grado di giudizio, in abbreviato, davanti al gip Angelo Antonio Pezzuti, e ribaditi dalla corte d’appello poche settimane fa.
Ma anche la linea difensiva è sempre stata la stessa: manca il nesso di causa tra la tragedia che colpì Astori nella sua camera da letto, e l’eventuale negligenza del medico sportivo.
Invece, per il tribunale, Galanti davanti a un "sospetto clinico motivato" che emergeva dall’elettrocardiogramma sotto sforzo di DA13, tenne un comportamento "in netto contrasto con le linee guida dello specifico settore e con le buone pratiche clinico assistenziali".
Accertamenti che avrebbero dovuto essere eseguiti quando, dai risultati delle prove da sforzo fatti dallo stesso Galanti durante le visite per l’idoneità agonistica del luglio del 2016 e del 2017, emersero alcune asistolie. Ma Galanti, hanno scritto i giudici nella sentenza appena impugnata, "degradò" le linee guida previste dai protocolli della medicina sportiva "a semplici schemi di indirizzo".
Il tribunale non gli ha concesso neanche le attenuanti generiche vista l’incensuratezza dell’imputato e il prestigio di cui gode nel suo campo.
Perché, sempre secondo i giudici, è ritenuta una "colpa grave tenuto conto del bene-vita in gioco", quella del professore, che si è "discostato ingiustificatamente dalle raccomandazioni delle linee guida vigenti e delle buone pratiche cliniche". Consulenti dell’accusa e periti del giudice di primo grado, hanno infatti raggiunto la comune conclusione che le extrasistole affiorate già dai test svolti nel 2014 quando Astori era un calciatore del Cagliari, dovevano imporre un accertamento di secondo livello, come l’holter o la risonanza magnetica cardiaca, stando ai protocolli ’Cocis’.
L’avvio dell’approfondimento avrebbe dovuto congelare l’attività del calciatore, che non sapeva di soffrire del male al cuore che lo ha ucciso, la cardiomiopatia aritmogena. Astori si sarebbe potuto salvare - sono ancora le conclusioni degli esperti - dopo la scoperta della malattia cardiaca attraverso l’impianto di un defibrillatore sottocutaneo.