Firenze, 15 giugno 2022 - Lui si è dimesso. A 55 anni, in piena carriera, Giuseppe Giannazzo ha lasciato il pronto soccorso. La medicina d’emergenza urgenza era il suo grande amore, "ma ormai non c’erano più le condizioni per poter assistere i pazienti con il tempo necessario per una diagnosi accurata". L’8 novembre scorso è stato il suo primo giorno da medico di famiglia. Una seconda vita. "Sono felice, rifarei tutto".
Perché ha lasciato?
"Ho lavorato 22 anni al pronto soccorso e 8 all’anestesia cardiologica. L’ospedale per me è stata una grande opportunità: ho potuto fare quello che mi piaceva, la medicina e chirurgia d’emergenza".
Poi che cos’è successo?
"Le cose sono andate a peggiorare continuamente. Non tanto per responsabilità delle singole persone, quanto perché il sistema sanitario pubblico ha fatto scelte che hanno privilegiato l’immagine della sanità trascurando però le esigenze dei cittadini e purtroppo anche di quelli che ci lavorano dentro".
Com’è una giornata da medico dell’emergenza?
"Nel mio caso avevo ricevuto l’incarico di tirare su un reparto di terapia subintensiva. E’ stato molto impegnativo, ma è stata una bellissima esperienza. Ho chiuso in bellezza".
Perché a un certo punto tutti hanno cominciato a scappare dal pronto soccorso?
"Negli ospedali c’è stata una contrazione clamorosa dei posti letto. Lì sono andati a recuperare le spese per la sanità d’eccellenza, di facciata. Però le persone non hanno più avuto la possibilità di essere accolte nei reparti. I pronto soccorso si sono trasformati da luogo di accettazione, trattamento e stabilizzazione dell’urgenza in una sorta di buchi neri nei quali i pazienti vengono abbandonati dal sistema".
Che vita fa un medico in prima linea?
"Estremamente pesante, da turnista, con una sola domenica libera al mese e mai associata al sabato, senza poter restare a casa per nessuna, o quasi, festa comandata. Poi si è trovato a dover gestire una marea di pazienti, tra quelli in arrivo e quelli che non trovano posto in reparto".
Le assunzioni?
"Sono state fatte. Ma in maniera assolutamente insufficiente rispetto alle necessità".
I pazienti?
"Il medico che lavora in queste condizioni non può prestare la dovuta attenzione e il dovuto tempo ai pazienti. E’ costretto a un tipo di medicina molto più superficiale, seppur densa di accertamenti. Perché esiste anche un problema di tipo medico legale che induce chi lavora lì di corsa a fare di tutto e di più per cercare di tutelare se stesso e il paziente. Ma di fatto non esiste esame strumentale che possa sostituire un’attenta anamnesi e un accurato esame obiettivo".
E’ stato un passaggio doloroso?
"Sì, ma naturale. Quando ho avvertito che la pressione del sistema mi toglieva tempo nella valutazione dei pazienti, ho capito che il mio modo di fare il medico non era più compatibile con il sistema ospedale".
Quindi?
"Mi sono dimesso. Ho optato per recuperare i rapporti familiari e una dimensione di vita più normale. Anche mi moglie che faceva il mio stesso lavoro si è dimessa. Siamo andati a fare i medici di famiglia con grandissima soddisfazione, seppure iniziando a subodorare future ripercussioni anche in questo ambiente. La carenza di personale comincia a farsi sentire" .
Lo rifarebbe?
"Rifarei tutto. A partire dal primo giorno di pronto soccorso".
La vita è migliorata?
"Un’altra vita. I figli finalmente hanno due genitori che stanno con loro almeno nel fine settimana. E questo ci rende felici".