PAOLO CHIRICHIGNO
Cronaca

I tempi bui delle Murate. Un carcere nel convento. Erano gli anni di piombo

Dalle porte aperte durante l’alluvione del ’66 all’agguato all’agente Dionisi. Il recupero dopo l’addio del penitenziario: oggi è luogo di musica e cultura.

I tempi bui delle Murate. Un carcere nel convento. Erano gli anni di piombo

I tempi bui delle Murate. Un carcere nel convento. Erano gli anni di piombo

Era un mondo compiuto, in bianco e nero, e Firenze fuori. La storia delle Murate inizia nel ‘400 con la costruzione, finanziata da Giovanni de’ Benci, di un monastero ad uso delle pie donne fiorentine che già vivevano rinchiuse con le porte tappate dai mattoni (da qui il nome "murate") in piccole casupole sul’attuale Ponte alle Grazie. Il convento crebbe nei secoli successivi fino al 1808, quando nel’ambito delle ordinanze contro la Chiesa ed il clero volute da Napoleone, venne chiuso. Nel 1845 i locali vennero ristrutturati, e le Murate ospitarono il nuovo carcere cittadino. Un secolo e mezzo dopo quel carcere venne chiuso e i detenuti trasferiti al moderno (allora) Sollicciano. Pillole storiche che poco dicono sulla presenza del carcere nella vita della città. Nel 1966, il giorno dell’alluvione, alle sei del pomeriggio l’acqua era alta quattro metri. Diversi detenuti restarono intrappolati, uno di loro morì. Panico generale, il cappellano del carcere, don Danilo Cubattoli, don Cuba, che tanta parte attiva avrà negli anni a venire per il bene di Firenze, evitò il peggio spalancando le porte di tutte le celle: uscirono in duecento, ma la maggior parte scelse di trovare riparo sui tetti, accanto agli agenti di custodia. Ottantatrè preferirono la libertà, evadendo anche dal carcere femminile di Santa Teresa. Qualcuno fu aggredito dal rimorso, e si ripresentò qualche giorno dopo. Altri non sono mai stati ritrovati. Nelle celle dove nel corso dei secoli prima si era pregato per i peccati e poi è scontato delle condanne, un fatto rimasto a suo modo simbolico.

Dodici anni dopo, una tentata evasione finita in tragedia. Alcuni militanti di Prima Linea volevano liberare dei detenuti alle Murate. Dall’intervento di una pattuglia della Polizia scaturì un conflitto a fuoco che scongiurò sì l’evasione ma costò la vita all’agente Fausto Dionisi. L’agente Dario Atzeni, colpito da quattro proiettili all’altezza dell’inguine, venne salvato dopo un intervento chirurgico.

Il terzo della pattuglia, Oreste Cianciosi, illeso, rispose al fuoco dei terroristi, che riuscirono, scappando, a coprirsi con il lancio di una bomba a mano che però non esplose. Tutto avvenne nel giro di pochi secondi in via delle Casine, dietro alle Murate. Era stata una donna, prima di mezzogiorno, a suonare il campanello dell’alloggio di servizio vicino al carcere dove abitava il maresciallo degli agenti di custodia che comandava la struttura penitenziaria. Con la minaccia di una pistola, la donna fece entrare altri due giovani che cominciarono a segare le sbarre di una finestra che si affaccia sul cortile interno del carcere.

Nel frattempo i due detenuti Renato Bandelli e Franco Jannotta stavano terminando un identico lavoro nella cella dov’erano rinchiusi. Piano di fuga fin troppo evidente: aprire la strada ai due carcerati attraverso l’appartamento del maresciallo, dopo aver divelto le sbarre della finestra che dava sul cortile. In quel momento però arrivò la volante dell’agente Dionisi, dopo la segnalazione della presenza di un furgone rubato proprio nei pressi del carcere. E fu l’inferno. Le Murate: un luogo, una zona, che parla di preghiere, espiazione e morte. Da circa vent’anni rivive sotto forma di luogo di aggregazione. Ma a guardare bene i muri e qualche scritta rimasta, il passato è sotto i nostri occhi.