FRANCESCO GURRIERI
Cronaca

Il filo culturale che unisce Firenze a Tokio

Francesco

Gurrieri

Nella più umile galleria d’arte della città, in uno scantinato di via de’ Coverelli, Francesca Morozzi e Sandra Miranda Pattin ospitano la mostra di Maho Sato. La galleria si chiama “Chiasso perduto” e l’exhibition “14855 Fili“. I rapporti artistici col Giappone, tutti affidati a giovani, a Firenze sono molto intensi. I tanti “fili” che danno il titolo a questa mostra, altro non sono che i giorni della sua vita. La Sato si è formata all’Accademia di Firenze. I suoi interessi e le sue opere spaziano fra la danza sperimentale, la performance

e la pittura: una sintesi che

va oltre la separazione e autonomia delle arti, a cui ormai quest’ultima generazione ci sta abituando. A cominciare dal luogo espositivo, che ricorda più le Caves di Saint Germain des Prés dove si esibiva Juliette Greco che una tradizionale “galleria”.

Qui, i “pezzi” dell’artista ricordano quell’Arte Povera a cui ci aveva abituati Germano Celant fin dagli anni ’60. Ma non è questo il punto. Il fatto è che per poter capire queste opere, anzi questa continuità espressiva, suggerita dalla sottile materialità di un filo rosso che balza fra le pareti e le volte per tornare a parete, occorre essere accompagnati dalla narrazione e dalla gestualità (dolcemente orientale) dell’Autrice, di Maho Sato. Si capisce allora come il “racconto artistico” si caratterizzi per un nobile neo- animismo, ben diverso da quello studiato e introdotto nell’800 che assegnava ai primitivi la credenza di una natura animata; e piuttosto un orizzonte sacrale dove si collocano gli antenati o le persone scomparse. L’artista ricomincia dalle pareti bianche, simbolo dell’anima pulita, ove entrano liberamente la luce,

il colore, la polvere, la bellezza, ma anche il dolore e la sofferenza. Così, il filo rosso che fa da guida, lega immagini, fiori, composizioni di oggetti, origami, gesti pittorici, materiali. Insomma, non si va “a vedere” questa mostra, ma

a “viverla”, aperti ad un’esperienza antropologica inconsueta. Ma non è anche questo il fine dell’arte? Sommuovere la quiete e frammentare le certezze, prospettando altre vie dello spirito.