LUCA
Cronaca

Il nonno di Montanelli: "Solo chi scrive per La Nazione può definirsi un giornalista". Il rito della lettura del quotidiano

Il celebre Indro fece questo pezzo in occasione del centenario del nostro giornale nel 1959 "Il mio più lontano ricordo è la testata che si leggeva su un posacenere di maiolica in casa".

Il giornalista Indro Montanelli

Il giornalista Indro Montanelli

Il mio più lontano ricordo della Nazione è la testata iscritta su un portacenere di maiolica, su cui mio nonno non ammetteva che si posasse altro sigaro che il suo. La Nazione non era il solo giornale che circolasse per casa. Arrivava in villa la mattina alle nove e la sua prima tappa non era lo studio di mio nonno, ma il salottino privato di mia nonna che, sebbene alzata da più d’un’ora, dichiarava ufficialmente inaugurata la giornata solo dopo aver scorso gli annunzi mortuari. Ai miei orecchi di bambino, tuttora impegnato in una sorda guerra con le aste, le notizie della Nazione giungevano così a rate. La precedenza l’aveva il morto se, fra quelli elencati, cen’era uno di conoscenza. Se niente di tutto questo avveniva, la lettura di mia nonna si concentrava sull’affaire del momento, di cui avevo imparato a misurare l’importanza dalle reticenze con cui lei ne riferiva. Solo dopo l’ora del tè, La Nazione entrava in mio possesso. Non me lo contestavano perché nessuno sospettava che avessi imparato a leggere quel giornale prima di aver imparato a decifrare l’abbecedario. Eppure, era proprio così.

Io seguivo le letture ad alta voce di mia nonna con sì tesa attenzione, con sì spasmodico interesse, che ogni parola mi restava impressa nella memoria, spesso per giorni e settimane. Sicché di ogni notizia sapevo non soltanto in che pagina, ma anche in che colonna e a quale altezza stava scritta. Il momento della mia gloria era quando, con La Nazione sotto il braccio, sgattaiolavo da Gallo (l’anziano servitore, ndr) per leggergliela. Entravo con molta gravità. E sebbene la cerimonia si ripetesse ogni giorno, la mia apparizione gli faceva velare le pupille acquose di una lacrima rotonda e pesa che poi gli rotolava come una goccia di mercurio fin sui baffi. "Cose grosse, oggi, Gallo!" annunziavo solennemente e con aria preoccupata, lasciandomi cadere sulla seggiola. "Davvero, sor Indro? Cosa c’è?" "La guerra" "La guerra!?" "La guerra" "O che mi dice!?".

Gli mostravo i titoli del giornale, ch’egli non sapeva decifrare, per spaventarlo anzitutto con le loro dimensioni. Poi, mi mettevo a recitare a memoria il resoconto dell’attentato di Serajevo, come lo avevo udito dalla viva voce di mia nonna. Devo onestamente confessare che spesso non resistevo alla tentazione d’introdurvi personali variazioni. Esse non erano molto coerenti con la logica dei fatti, ma in compenso ne rendevano molto più appassionante la cronaca. Nel sentirmi leggere il giornale a ruota libera e con tanta disinvoltura, Gallo aveva concepito di me un’opinione di cui non ci sono aggettivi per dar la misura. "Da quel bambino — ripeteva a tutti — vien fuori qualcosa, ve lo dico io". Da parecchio tempo ormai Gallo si era portato nella tomba la convinzione che da me dovesse venir fuori qualcosa, quando La Nazione deluse le mie nascenti ambizioni giornalistiche. A Fucecchio essa aveva un corrispondente locale, che si chiamava Ottorino Freschi. Fu per suo incoraggiamento e ispirazione che io scrissi, mentre ancora frequentavo il ginnasio, il primo articolo, su "Fucecchio segreta". Ottorino mi aveva promesso un biglietto di presentazione al direttore Aldo Borelli, che poi diventò mio direttore davvero, ma al Corriere. A questo primo tentativo, altri ne seguirono, non meno sfortunati. Bene o male, pur dando a mio padre l’illusione che il mio unico interesse era per il diritto romano e per quello civile, avevo demarato in giornalismo. Bargellini aveva accolto sul Frontespizio un mio articolo su "Byron e il Cattolicismo". Pur di farlo pubblicare, mi ero inventato una problematica religiosa, che avrebbe potuto far di me anche un protestante se il Frontespizio fosse stato protestante. Non mandai a Fucecchio e alla mia famiglia il numero della rivista. Lo portai di persona, convinto di suscitare in casa un’ondata di giubilo. Ma mio nonno, sulla cui scrivania la collocai, bene in vista, a spalliera del portacenere preferito, finse di non vederla per tutto il giorno, e non vi fece allusione all’ora del tè. Soltanto la sera, dopo pranzo, al momento di accendere il sigaro si alzò e andò a prendere nello studio, insieme al portacenere, la rivista. Sul mio articolo, ch’era purtroppo uno degli ultimi, non indugiò più a lungo che sugli altri, come se a scriverlo fosse stato un autore, a lui ignoto. Quando l’ebbe sfogliato tutto, si accomodò davanti il fascicolo chiuso ci batté una mano sopra, e alla fine fissandomi di sopra le lenti, ma senza nessuna compiacenza, mi chiese: "Be’, cos’è questa roba?". Cercai di spiegargli cos’era, naturalmente magnificandogliela. Egli riassunse così il mio lungo e tortuoso discorso: "Ho capito, è roba di preti". In bocca a un massone del suo stampo, quella qualifica sommaria e ingiusta suonava offensiva e fece ribollire le mie ataviche pregiudiziali laiche. "E’ collaborando a queste riviste, che si diventa giornalisti! " "Giornalisti!?" sobbalzò il vecchio picchiando un gran cazzotto sul frontespizio del Frontespizio. Poi dié di piglio alla Nazione ripiegata sulla consolle e agitandomela spalancata sul muso, tuonò: "Giornalisti sono soltanto quelli che scrivono qui!...". La rivincita non l’ho mai avuta, perché il vecchio morì prima che La Nazione si decidesse a tributarmi finalmente un omaggio.