OLGA MUGNAINI
Cronaca

Il premio Ubu 2024. La miglior costumista è Aurora Damanti

FIRENZE "L’ispirazione per un buon costumista? Qualsiasi cosa: i viaggi, i musei, le persone sul treno, una vecchia foto. Essenzialmente serve...

Aurora Damanti ha vinto il Premio Ubu 2024 come miglior costumista italiana per il Progetto Cechov

Aurora Damanti ha vinto il Premio Ubu 2024 come miglior costumista italiana per il Progetto Cechov

FIRENZE

"L’ispirazione per un buon costumista? Qualsiasi cosa: i viaggi, i musei, le persone sul treno, una vecchia foto. Essenzialmente serve curiosità".

Aurora Damanti è da anni che spazia fra il teatro e il cinema, dando un’anima, attraverso gli abiti, ai personaggi sul palcoscenico e sul set. E adesso, dopo tanti riconoscimenti, è arrivato anche la più prestigiosa e ambita targa del mondo del teatro: il Premio Ubu 2024, consegnato alla fine dell’anno scorso, quale migliore costumista italiana, per il Progetto Cechov.

Nata a Firenze nel 1986, Aurora Damanti gira da un capo all’altro d’Italia ma continua a vivere nella sua città.

Come nasce la sua professione?

"Fin dall’inizio dei miei studi l’indirizzo in effetti era segnato. Mi sono laureata con lode in ‘Progettazione della Moda, curriculum Prodotti per lo Spettacolo’ nel 2009 alla Facoltà di Architettura di Firenze. E dal 2010 ho avuto subito esperienze teatrali e cinematografiche con i registi Leonardo Lidi, Lino Musella, Tindaro Granata, Michelangelo Bellani, Massimiliano Speziani, Romeo Conte, Massimo Luconi, Valerio Groppa, John Snellinberg ed il direttore d’orchestra Mario Menicagli".

Quali sono gli spettacoli più importanti che ricorda?

"Ho preso parte a manifestazioni quali il Festival dei Due Mondi di Spoleto, La Biennale di Venezia, il Festival di Sanremo con Sabrina Impacciatore, il Festival Lirico Internazionale di San Gimignano ed il Festival di Radicondoli. E poi i teatri: lo Stabile di Torino, il Teatro LAC di Lugano, il Grand Théatre di Bordeaux, lo Stabile di Napoli, il teatro Stabile dell’Umbria ed il Teatro Metastasio di Prato".

Il premio Ubu è arrivato col Progetto Cechov. Di cosa si tratta?

"Sì, è una trilogia che comprende “Il gabbiano“, “Zio Vanja“ e “Il giardino dei ciliegi“, che è tutt’ora in tournée, dopo aver girato praticamente tutta Italia. Il mio lavoro è stato ricostruire un percorso che attraverso i costumi andasse dall’inizio del Novecento fino agli anni Settanta".

Cosa serve per fare bene il suo mestiere?

"Bisogna saper disegnare e conoscere la storia del costume, ma prima di tutto bisogna essere curiosi, perché le ispirazioni possono venire da qualunque situazione della vita, vedendo una mostra, viaggiando e riportando colori e immagini di un luogo, perché in definitiva tutto rimane dentro noi e va mescolato con le esigenze registiche".

Ecco, come avviene il rapporto col regista?

"Per prima cosa chiedo come si immagina il personaggio dal punto di vista psicologico e in base al profilo inizio a creare i costumi. Spesso mi occupo anche del trucco e parrucco".

Questo vuol dire che l’abito fa il monaco?

"No, ma racconta tanto. In base ai colori e alle forme si può trasmette l’anima di un personaggio. La stessa consistenza delle stoffe, morbide o rigide, si suggerisce il carattere, il timbro. E poi i costumi devono essere comodi, perché l’attore si deve sentire a suo agio per entrare nei panni di chi interpreta”.