Cecchi
attraverso gli occhi di costoro che tutti, ieri sera, abbiamo compreso il dramma che si stava consumando dentro il catino dimezzato del Franchi. Di nuovo un ragazzo sull’orlo della vita a tenersi aggrappato al bordo per non volare giù nel buio. Un ragazzo, non un calciatore che si fa divo. Perché alle 18 e 17 di ieri, nel sentire collettivo si è come polverizzata l’idea di idolatria e privilegio che circonda i calciatori. Ed è emersa, prepotente, la realtà di un gioco fatto da non da supereroi inscalfibili da tutto ma da ragazzi che possono inciampare anche loro, eccome, nei tanti scalini della vita, facendo germogliare un dolore del tutto naturale. Già, il dolore come propellente dell’umanità. Lo avevamo già visto altre volte come, attraverso il passaggio faticoso del dolore, si possano cancellare differenze e rivalità e attraversare frontiere apparentemente inattraversabili. Lo avevamo già visto in piazza santa Croce, nel giorno dell’addio ad Astori. Quel giorno, sulla pietra antica della piazza, non c’erano confini o vecchi rancori a dividere calciatori e tifoserie. Non c’erano né odio né violenza ma, tutti insieme, juventini e fiorentini, interisti e romanisti, napoletani e veronesi, a celebrare il dolore e il rispetto per la vita negata troppo presto. Il sigillo dell’umanità, appunto. Quella umanità che abbiamo rivisto anche ieri attraversare l’Italia intera, spazzolandola come un vento buono. L’umanità di chi, a Firenze, non voleva saperne di lasciare gli spalti del Franchi, quasi volesse da lì partecipare alla sofferenza di Bove, a dire lui: "Noi siamo con te e non ci muoviamo finché non abbiamo la certezza che non sei in pericolo di vita". E poi l’umanità delle altre piazze d’Italia, dello stadio di Lecce e di quel cartellone luminoso "Dai Edo non mollare" e di tutti gli altri luoghi dove tifoserie diverse spingevano in una sola direzione: "Forza ragazzo, non c’ è un solo tifoso che in queste ore non sia con te ". La solidarietà che traccia un confine, relegando sulla sponda opposta brutalità e ferocia, intolleranza e insensibilità. Ovvero quelle componenti che, da tempo immemore, sono le metastasi del calcio. Che gran giorno sarebbe, per il calcio e per la vita, quello in cui i sentimenti di ieri si imponessero anche senza l’onda d’urto del dolore, si imponessero in una quotidianeità che diverrebbe per forza straordinaria.