Numeri che raccontano una vita. L’uno ce lo aveva appiccicato sulla schiena. E con quel numero ha parato e vinto tanto. E poi il 27, quello di Niccolò, il figlio scomparso in un incidente nel febbraio del 2001. Aveva 17 anni, e da quel giorno la vita di Giovanni Galli, di sua moglie Anna e delle due figlie Camilla e Carolina, è stata squarciata dal dolore e spinta a forza alla ricerca di una strada da cui ripartire.
"Ci hanno salvato la fede e l’amore che ci unisce. Siamo sempre stati insieme, anche quando giocavo e cambiavo città, mia moglie e i bambini erano sempre con me. Essere molto uniti ci ha aiutato a non perderci. Tutto il resto: la fondazione, il torneo dedicato a Nicco, ascoltare il dolore altrui fanno parte del percorso che abbiamo intrapreso oramai da più di vent’anni".
L’immagine che le è rimasta impressa di quel giorno?
"Il viaggio in macchina con Anna verso Bologna. Le notizie erano confuse, siamo stati zitti tutto il viaggio. Poi, all’uscita della galleria di Sasso Marconi, ho visto là in fondo l’abbazia di San Luca. E ho detto: ’Anna, prepariamoci a tutto’. Quando ripasso da lì mi torna sempre in mente quel momento".
E poi c’è quel numero 27…
"Sì, è diventato il nostro numero. Quando vivi un dolore simile diventi più sensibile, fai caso a cose che prima neanche ti sfioravano. Il numero di Nicco ci appare ovunque. Nelle cose più impensabili: l’orario di un treno, il giorno in cui parte un aereo… quando arriva siamo felici. Sentiamo la presenza di Niccolò".
Giovanni Galli, un pisano a Firenze. Si potrebbe aprire un dibattito sul rapporto tra queste due città.
"Firenze è la città che ho scelto. Ma non posso certo negare le mie origini, le case popolari dove sono cresciuto con la mia famiglia. E poi ci aggiungo anche le Garfagnana, perché anche quella è terra è nel mio Dna. E i garfagnini sono gente tosta. Quando mi arrabbio Anna, una fiorentina purosangue, mi dice sempre: adesso sei proprio un garfagnino…".
Parliamo della sua Firenze. Quali sono le strade o le piazze della sua vita quotidiana?
"Per me Firenze è soprattutto Campo di Marte. Quando passo di lì mi sento a casa. D’altra parte ci sono cresciuto, lo stadio, i campini…
Della sua Fiorentina quanti amici sente o vede ancora?
"Sicuramente Galbiati. Abbiamo fatto le giovanili insieme, siamo amici da quando avevamo 14 anni".
Passioni oltre il pallone?
"Lo sport, quasi tutto. Devo ammettere, per esempio, che mi diverto di più a vedere una partita di Pallavolo che una di calcio".
E poi?
"Poi amo imparare cose nuove. Sono curioso. Sono un autodidatta. Per esempio, al mare mi sono impuntato col giardinaggio. E’ stata dura ma poi qualcosa sono riuscito a fare".
E come è nata la passione per la politica?
"E’ iniziato tutto dalla mia esperienza nel terzo settore con la Fondazione. Ho conosciuto tante persone, e poi il mondo dello sport. Così è nata la lista civica nel 2009 e per me è stato un grande risultato. Mi sono messo a studiare e a vivere ancora di più la città per capirne i problemi. Poi la Regione. Un’altra sfida. Faccio tutto al meglio delle mie possibilità. Lo faccio per rispetto di chi mi ha votato e perché io sono fatto così".
Parliamo del ruolo del portiere, un ruolo carismatico. Controllo, egocentrismo, leadership, coraggio, voglia di volare.
"Spesso conta di più la tranquillità che trasmetti ai compagni della grande parata. A volte sei solo contro tutti, anche i compagni diventano avversari se non fanno quello che devono fare".
De Gea è arrivato a Firenze dopo un anno di stop. Era un rischio?
"No, perché se ti alleni e sai di essere ancora te stesso non cambia quasi niente. Tanto più per un campione come lui".
Ha detto quasi…
"Sì, all’inizio ha avuto qualche problema con le uscite. Ma questo perché si doveva riabituare a leggere le traiettorie. E’ normale, e comunque problema risolto in fretta. A stretto giro non solo ha fatto grandi interventi ma ha anche fatto crescere l’intero reparto".
Torniamo al passato e al garfagnino che è in lei. Si ricorda di litigi ad alta tensione vissuti in prima persona?
"Ah certo. Quello più accesso fu con Aldo Agroppi. Arrivò per sostituire De Sisti e gli avevano soffiato nell’orecchio che eravamo stati noi senatori a far fuori l’allenatore. Così non ci rivolgeva parola. Io ero il capitano e un giorno venne a casa mia. Non fu un incontro facile. Un pisano e un livornese. Roba tosta. Ma a volte i bei rapporti nascono anche così".
Il momento più difficile della sua carriera?
"Dopo il mondiale dell’86. Quel gol di Maradona non lo volevo rivedere. Ci è voluto un po’. Non uscivo di casa, sentivo gli sguardi di tutti addosso. Poi andai al Milan".
Il giocatore più forte che ha visto il campo?
"Potrei dire Maradona, troppo facile. Invece dico che sono sempre rimasto colpito alla classe e dall’eleganza di due giocatori che ti incantavano per come si muovevano sul campo. Van Basten e Antognoni erano uno spettacolo".
Senta Galli, ma dei fiorentini che dice?
"Dico che passano dalle stelle alle stalle in una frazione di secondo. E’ il loro modo di essere e devo dire che se ho scelto di diventare uno di loro significa che va bene così".
Ultima cosa, prima ha parlato di fede. Per lei cosa significa, come l’ha aiutata a metabolizzare il dolore.
"Io sono convinto che Nicco mi stia aspettando e che un giorno lo rivedrò. Se non dovesse essere così allora ci sta che mi arrabbi. E quando mi arrabbio…".
Viene fuori il garfagnino che è in lei…
"Proprio così, Anna lo sa bene".