REDAZIONE FIRENZE

Georgofili, "In difesa della giustizia"

Un estratto dal libro di Giorgio Sturlese Tosi e Pierluigi Vigna

La strage dei Georgofili

Firenze, 27 maggio 2023 – «Dottore buonasera, scusi l’ora, ma c’è stata un’esplosione agli Uffizi. La veniamo a prendere?» «Immediatamente!». Era il 27 maggio 1993. Era da poco passata l’1 di notte quando squillò il telefono. Avevo appena chiuso un libro e stavo per prendere sonno. Mia moglie, che invece dormiva, si svegliò di soprassalto. Mi chiese cos’era successo. «Una cosa grave» le dissi. Mi vestii in fretta, infilandomi la camicia sporca che poco prima avevo buttato su una sedia. Sentii la sirena del maresciallo che ancora mi stavo allacciando le scarpe. Uscii in giardino, aprii il cancello e montai sulla gazzella dei carabinieri. Percorremmo a forte velocità la fine del viale dei Colli, via Maggio, il lungarno, fino al loggiato degli Uffizi, dove l’auto si fermò per farmi scendere. C’era molta gente che correva, con l’espressione incredula e spaventata. A passo svelto feci il loggiato, su un tappeto di vetri rotti, sfilando davanti ai volti di fiorentini illustri, quando incrociai lo sguardo di Gabriele Chelazzi. Quella notte era lui il pubblico ministero di turno, e a lui era arrivata la prima telefonata. Nonostante abitasse al Campo di Marte, più lontano di me, era arrivato prima. Mentre mi indicava la strada, senza dire una parola ci scambiammo uno sguardo carico di speranza. La speranza che si trattasse di una fuga di gas. (…) Ma non sentivamo l’odore del gas. Nessuno lo sentiva. Né io, né Gabriele e nemmeno i vigili del fuoco che già si stavano dannando per scavare tra le macerie alla ricerca di feriti. Scorsi, tra i soccorritori, Annamaria Petrioli Tofani, la direttrice del museo degli Uffizi. Era molto agitata, si era precipitata per fare il conto dei danni alle opere d’arte. Proprio di fronte all’Accademia dei Georgofili c’era un gigantesco cratere. In quegli attimi concitati era già chiaro che dovevano esserci delle vittime. I pompieri stavano scavando con le pale e a mani nude: cercavano le tubature dalle quali doveva essere fuoriuscito il gas. Ma di tubi, lì sotto, non ce n’erano. Uno dei caposquadra dei vigili del fuoco emerse dal cratere, mi venne incontro e mi disse: «Dottore, non è una fuga di gas». (…). Feci qualche passo verso il cortile quando, nell’oscurità, vidi il motore di un’auto, sbalzato dal cofano da una potentissima carica di esplosivo. Capii. Quello che fin dalla telefonata era un tragico sospetto, una sensazione che avevo tentato di scacciare, stava prendendo corpo davanti ai miei occhi. Tornai sui miei passi. A Gabriele e al capo dei vigili del fuoco che mi venivano incontro dissi soltanto: «È un attentato». (…). I soccorritori continuavano a scavare in condizioni difficilissime, a rischio di possibili crolli, in mezzo alla polvere. La speranza di un miracolo si spense quando vennero estratti i corpi delle vittime dai cumuli di pietra e terra. La prima era un fagottino, una neonata di appena cinquanta giorni, Caterina. Poi la sorella Nadia, di nove anni, e il padre, Fabrizio Nencioni. Infine Dario Capolicchio e Angela Fiume. Cinque vittime, di cui due bambini. L’esplosivo Gabriele e io ci ponemmo subito il problema di quale fosse la prima cosa da fare. Se di attentato si era trattato, bisognava capire il tipo di esplosivo che era stato utilizzato. Bisognava cioè repertare quintali di quelle macerie. Disponemmo che delle ruspe venissero a prelevarle. Quindi chiedemmo al Comune di metterci a disposizione un capannone dove scaricarle per farle esaminare dai consulenti. Contattammo subito la polizia scientifica di Roma e il Comsubin di La Spezia, il reparto degli Arditi Incursori della Marina Militare, esperti di esplosivi. Ci assicurarono che in mattinata sarebbero arrivati a Firenze. Erano ormai le 5 passate. Tornai a casa per una rapida doccia e per cambiarmi gli abiti, impregnati di polvere e fumo. Di dormire non se ne parlava. Non c’era tempo e a ogni modo non sarei riuscito a chiudere occhio: le immagini di quello strazio continuavano a balenarmi nella mente. Un paio di ore dopo ero in procura insieme a Chelazzi. Disposi subito che le indagini le avrei coordinate personalmente e, data la mole di lavoro da fare, a Gabriele affiancai l’altro sostituto Francesco Fleury e Giuseppe Nicolosi, siciliano ed esperto di mafia. Qualcosa mi diceva, infatti, che le indagini ci avrebbero portato in Sicilia, al cuore di Cosa Nostra. I risultati delle analisi sull’esplosivo confermarono queste intuizioni: si trattava una miscela di pentrite, che gli artificieri chiamano «polvere dell’inferno» (ha una velocità di deflagrazione terrificante, più di sette chilometri al secondo, e arriva a produrre seimila gradi al momento dello scoppio), T4, tritolo e nitroglicerina. La stessa composizione impiegata per l’attentato, fallito, al giornalista Maurizio Costanzo, che dal suo talk show attaccava ogni era la mafia, in via Fauro, meno di quindici giorni prima. La stessa che il 23 dicembre 1984, fece esplodere il «treno di Natale», il rapido 904 nella galleria dell’Appennino a San Benedetto Val di Sambro provocando la morte di diciassette passeggeri ed oltre duecento feriti. Stesso esplosivo, stessa firma. La matrice mafiosa della strage diventava più di un semplice sospetto. (…) Il 31 agosto 1995, sei mesi dopo i primi provvedimenti, arrestammo Vincenzo Ferro, studente in Medicina e figlio del boss Giuseppe, di cui provammo l’arrivo a Firenze in aereo. Il giovane decise subito di collaborare con la giustizia e confermò l’impianto accusatorio delle indagini. Raccontò nei particolari come, pur essendo fatto di tutt’altra pasta rispetto al padre (non aveva mai commesso reati), fosse stato suo malgrado coinvolto negli attentati. Mentre il padre era in carcere, infatti, gli venne ordinato di accompagnare i palermitani a Prato e di soggiornare nella casa messa a disposizione da Messana. Vincenzo provò a rifiutarsi: si giustificò dicendo che doveva sostenere alcuni esami universitari, ma l’ordine venne perentoriamente ribadito. A quel punto Vincenzo capì che non aveva scelta. Il ragazzo si disse all’oscuro del disegno criminoso che si nascondeva dietro quel viaggio. Vide il Fiorino nel garage di Messana e vide anche degli involucri al suo interno. Ma solo alla luce di quello che accadrà in seguito ricollegherà quei pacchi all’esplosivo usato in via dei Georgofili. La collaborazione di Vincenzo Ferro fu fondamentale per il procedere delle indagini.