Firenze, 23 agosto 2019 - "Ti senti un bambino o una bambina?". "Boh, io sono io". A 3 anni Lori risponde così, con quell’unica certezza, alla mamma Camilla, una madre guerriera di 48 anni che ogni giorno vive sulla propria pelle l’essenza della diversità. Diversità che porta proprio il nome di Lori, sua figlia che oggi ha 11 anni, nata biologicamente maschio ma che già dalla primissima infanzia si ribella ai vestitini blu che la società vorrebbe imporle. In queste pagine racconteremo storie di bambine e bambini che sin dalla nascita non si riconoscono nella loro identità sessuale e iniziano un doloroso percorso di transizione, tra pregiudizi e mancanza di diritti, per trovare se stessi.
Strade costellate da profonda sofferenza, soprattutto nella pubertà quando il corpo si trasforma e viene sentito come una gabbia. Condizione, o meglio costrizione, che può portare a depressione, anoressia e tendenze suicidarie. Di infanzia transgender in Italia si parla poco, ma è una realtà che esiste, lo confermano i numeri. "Negli ultimi 13 anni, dal 2005 al maggio 2018 – spiega Damiana Massara, coordinatrice della commissione minori dell’Onig (Osservatorio nazionale sull’identità di genere) –, sono 251 le famiglie che si sono rivolte ai centri specialistici che si occupano di bambini e adolescenti con sviluppo atipico dell’identità di genere".
Numeri sottostimati poiché conteggiano solo i casi registrati in ambienti clinici, restano invisibili tutte le esperienze di quelle famiglie che non cercano aiuto per la vergogna e il timore del giudizio altrui. A Firenze l’ospedale di Careggi è stato il primo in Italia a istituire un Centro di coordinamento regionale che si occupa di identità di genere (Crig). Ma quando è il caso di rivolgersi a un centro specialistico? "Nel caso in cui emergano comportamenti cross-gender nell’infanzia, i genitori possono già richiedere una consulenza – spiegano le dottoresse del Crig Jiska Ristori, psicoterapeuta e Alessandra Fisher, endocrinologa –. Nella pubertà la situazione può essere più complessa ed è necessario chiedere aiuto quando l’adolescente mostra chiusura in sé e scorrette abitudini alimentari".
La storia di Camilla e dei suoi tre figli inizia da Firenze dove la famiglia ha vissuto fino a due anni fa, poi la scelta di abbandonare l’Italia per trasferirsi in Spagna. Lori a Firenze si chiama Lorenzo ma quel nome che termina con la ‘o’ imbriglia la sua anima bella che invece scalpita per correre lontano da quei rigidi cliché di genere. Lori ama il rosa e i capelli lunghi, tanto da mettersi i pantaloni del pigiama in testa per simulare la chioma di una bambina. «Quando mi compri una gonna?», chiede alla mamma a soli 3 anni. «In questi atteggiamenti l’ho sempre assecondata perché mi sembravano normali quanto quelli di una bimba che preferisce il calcio alla danza. Non ci trovavo niente di patologico».
Col passare del tempo però, non solo i gusti di Lori non cambiano, ma gli amici di Camilla iniziano a dirle che da mamma sbaglia ad assecondarla: «Fagli uscire dalla testa queste stranezze, porta Lorenzo da uno bravo». La chiave di volta Camilla la trova in Rete dove incontra le vite di cento, mille Lori. «Solo lì ho capito cosa fosse la varianza di genere». Un racconto coraggioso, quello della mamma fiorentina, in cui ci mette la faccia, dando vita anche a un blog, ‘Mio figlio in rosa’, dove entriamo nel mondo di Lori e degli altri bambini che fluttuano in un arcobaleno di colori alla ricerca del loro colore. E’ in Spagna che Lori, per la prima volta, riesce a dire «sono una bambina». Nel Paese iberico i minori sono incoraggiati anche dalla legge a seguire persino a scuola il genere a cui sentono di appartenere. In Italia invece la ‘transizione sociale’, vivere nel genere sentito, è un percorso ancora travagliato. Nelle nostre scuole non ci sono, ad esempio, delle linee guida per gli insegnanti che in classe abbiano casi di bambini con varianza di genere. «L’approccio dipende dalla sensibilità degli insegnanti», spiega Cristina Galli, maestra alla scuola elementare Cairoli di Firenze, frequentata da Lori quando era in Toscana.
"Lori sul registro era Lorenzo e i pronomi erano declinati al maschile. Si faceva massima attenzione ai comportamenti in classe, affinché non ci fossero atti discriminatori. Solo l’ultimo anno di scuola per Lori è stato difficile. Alcuni bimbi iniziarono a dirgli: “Ma tu sei una femmina”. Ricordo mi venne incontro piangendo e gridando: “Perché maestra? Io sono sempre io”». Ci sono anche storie che raccontano di un malessere profondo che lacera i bambini già dall’infanzia. Dove l’unica consapevolezza è ‘Io non sono io’: in questo caso si parla di disforia di genere, di ‘malsopportazione’, perché non sentirsi a proprio agio nel proprio corpo non è da considerarsi una malattia, ma una condizione.
Lo sa bene Tiziano, nato 44 anni fa a Massa Carrara nel corpo-gabbia di Adelaide. Tiziano da bambino impara a recitare un copione, tenta di essere Adelaide «solo per accontentare la famiglia».
Conosce l’inferno con l’adolescenza, quando le sue sembianze diventano sempre più femminili. Cade nel tunnel dell’anoressia «che diventa l’unico modo per bloccare lo sviluppo di quelle forme tanto odiate». Poi il coraggio di intraprendere un percorso che lo porterà al ritrovamento del suo vero io. Fatto di psicologi, psichiatri, comitati etici che daranno il via all’utilizzo di ormoni e alla chirurghi per la riassegnazione del sesso. Infine il consenso del tribunale che trasforma la sua carta di identità. Tiziano da 4 anni non è più Adelaide, neanche sui documenti, e può dire: «Finalmente esisto». Camilla sa che Lori non avrà davanti a sé una vita semplice e, da madre, il futuro le fa paura perché «il primo nemico sarà sempre il pregiudizio».