Firenze, 5 ottobre 2024 – A cento giorni dall’inizio della sua missione pastorale, incontro con monsignor Gherardo Gambelli, 55 anni, arcivescovo di Firenze dal 24 giugno scorso. Cresciuto a Castelfiorentino e missionario per undici anni in Ciad, la sua è stata una nomina a sorpresa che ha creato tantissime aspettative. È stato parroco e cappellano di Sollicciano ed è, il che non guasta, anche un grandissimo tifoso della Fiorentina
Monsignor Gambelli, siamo ai suoi primi cento giorni da arcivescovo, come va?
«I sentimenti sono di gioia anche perché vedo che c’è una bella risposta, ogni volta che vengo invitato in una parrocchia per qualche celebrazione c’è molto entusiasmo nei fedeli; questo mi sta dando molta forza, e speranza perché c’è voglia di ripartire, di impegnarsi. È stato bello visitare le parrocchie un po’ più di periferia; sono stato due giorni a Firenzuola, poi a Palazzuolo sul Senio, a Monsanto. E ho visto in questi paesi una fede viva, ho conosciuto un’esperienza molto bella a Palazzuolo dove c’è un parroco africano molto amato dalla gente. Queste cose mi stanno dando tanta consolazione perché le periferie mi preoccupano a causa della mancanza di preti, ma vedere che ci sono delle comunità vive, mi incoraggia perché possiamo cominciare a riflettere su come far fronte al problema con un laicato sempre più maturo».
Si attendeva la nomina?
«Per niente. Anche quando l’ipotesi veniva fuori sui giornali mi sembrava un po’ fantascienza. Ero rientrato da poco in diocesi e ancora sto vivendo questo momento di novità rispetto alla mia vita in missione. Undici anni fuori sono un periodo abbastanza lungo, e anche se qualche volta sono rientrato, l’Italia nel frattempo è cambiata molto».
Il suo arrivo ha creato molte aspettative in città, non solo tra i fedeli. Un peso o uno stimolo?
«Per adesso lo sto sentendo come uno stimolo, ma anche una grossa responsabilità. È facile deludere le attese. Un allenatore di calcio inglese dice che sei bravo fino alla prossima partita. Le attese, però, un po’ spaventano: le soluzioni non sono facili e spesso le persone si aspettano di cambiare rapidamente; mentre invece, come ci sta dicendo il Papa a proposito della conversione sinodale e missionaria, c’è bisogno di molta pazienza, molto lavoro anche a livello personale, non solo comunitario».
Che situazione ha trovato?
«In diocesi, oltre ad un buon clero e parrocchie vive, ho trovato una realtà che non conoscevo completamente, mi riferisco alle comunità religiose. Come parroco ero in contatto con quelle vicine sul territorio. Adesso per me è stata una bellissima sorpresa incontrare più da vicino molte comunità religiose e ho constatato che vivono il Vangelo in maniera molto autentica. Penso ad esempio alle suore di Monna Tessa, impegnate nella pastorale sanitaria, o ai francescani con le loro iniziative come il recente Francescolive. Per me è stata una bella sorpresa. Naturalmente ci sono difficoltà, problemi, penso alla gestione delle chiese, che vengono abbandonate, soprattutto alle parrocchie di periferia. Questo è motivo di grossa preoccupazione».
Quali sono le sue priorità nel cammino pastorale in sostanza appena iniziato sotto la sua guida?
«Sono quelle del Magistero del Papa. La lotta contro gli abusi sulla quale dobbiamo sempre essere vigilanti. Il secondo punto, la sfida digitale. Mi sembra sia un aspetto molto importante per intercettare i giovani. Rimane però un mondo da evangelizzare, nel quale come Chiesa siamo molto indietro e la terza è la sfida dei migranti. Sono convinto che tra di loro ci siano persone di grande valore che possono aiutarci a diventare migliori. Il senso del messaggio della Giornata del migrante era “Dio cammina con il suo popolo“ e il Papa aggiungeva “nel suo popolo“: ogni persona è immagine di Dio e come tale va accolta».
A Firenze si respira in generale un clima di insicurezza per la microcriminalità diffusa, che causa intolleranza: come se ne esce tutti insieme?
«I problemi sono reali e comuni a tante grandi città. Sarebbe importante che tutti diventassimo coscienti di quali siano le cause delle migrazioni. Molto spesso le persone fuggono a causa di problemi di cui anche noi siamo responsabili. Tutte le iniziative per capire e conoscere le origini del problema, possono aiutarci ad avere un’attenzione diversa. Bisogna evitare politiche che siano solo emergenziali. Altrimenti è come mettere la polvere sotto il tappeto, o lasciare che queste persone finiscano in pasto alla criminalità. Progetti di cooperazione, invece, possono fare molto bene».
Politica e istituzioni: quali rapporti in essere?
«Con la sindaca Sara Funaro ci siamo incontrati varie volte. Sull’immigrazione, per esempio, stiamo progettando di creare un tavolo fra le varie istituzioni per poter rispondere sempre meglio a questa criticità, anche con iniziative di prevenzione. I problemi, come dice il Papa, vanno trasformati in sfide. Ritrovarsi in maniera non saltuaria può davvero aiutarci. Mettersi in ascolto e coordinare le iniziative sul territorio».
Politici cattolici o cattolici in politica? Cosa ne pensa?
«Sono formule da superare. L’importante è che i cattolici si assumano le responsabilità politiche. La fede cristiana non è mai un fatto privato. Soprattutto è importante educare i giovani: un politico, ancor più se cristiano, se compie qualcosa di censurabile scoraggia le nuove generazioni, non facendo vedere la bellezza di questo impegno che è davvero nobile».
Il palazzo arcivescovile, sua nuova casa, apre il portone in uno dei luoghi che subisce la maggiore pressione turistica: esiste una convivenza possibile?
«Dobbiamo convincerci che fare di Firenze la Disneyland del turismo va a svantaggio di tutti. Se Firenze perde la sua identità non è più attraente. Possiamo promuovere iniziative culturali capaci di fare di Firenze quel luogo immaginato da La Pira, capace di aiutare le persone a costruire ponti di pace. La bellezza ci porta al trascendente, e Firenze con la sua apertura a culture diverse ha sempre permesso di guardare verso l’Alto e ciò ci fa guardare anche verso l’altro».
Non c’è il rischio che le chiese, le basiliche storiche a cominciare dalla Cattedrale, siano più considerati musei che luoghi sacri, di accoglienza e preghiera?
«Credo che il Giubileo 2025 sarà una bella opportunità per offrire percorsi che facciano capire che l’arte nasce da un’esperienza di fede. Ci sono iniziative in cantiere, dato un ancor maggiore afflusso di turisti previsto per l’Anno Santo, come l’uso delle lingue straniere nelle liturgie, bel segno di accoglienza, e percorsi di catechesi attraverso l’arte, potenziati e migliorati nei modi di comunicare. La forma oggi è contenuto».
Il centro storico ormai spopolato, dove le case sono state trasformate in strutture ricettive, ha creato sia rendite di posizione che disuguaglianze. Quale strada percorrere?
«Credo sia importante mettere insieme le forze. Sono convinto che il disagio che le persone che vivono in centro percepiscono possa essere ridotto o superato con il capire che questo tesoro che ci è stato affidato è una nostra responsabilità, un bene comune. E va protetto sentendosi tutti responsabili».
Case che mancano, affitti insostenibili ai più, lavoro precario o a rischio licenziamento, nuove povertà: un modo inclusivo per affrontare quella che il Papa definisce “inequità”?
«L’inequità viene dall’iniquità, ma - dice il Papa - le ingiustizie non sono invincibili. Tante volte i problemi ci sembrano insormontabili. Quando ero viceparroco a Santo Stefano in Pane, ricordo persone anziane che vivevano in appartamenti molto grandi che decidevano di andare ad abitare con la vicina di casa per fare in modo che altre persone potessero avere una casa. Sono convinto che se c’è un lavoro di sensibilizzazione da parte delle parrocchie e non solo, aiutare le persone con questi piccoli esempi potrebbe essere molto utile. Se ognuno cerca di cambiare qualcosa vicino a sé, il mondo può cambiare. Anche nel mondo del lavoro, creando situazioni di disagio, queste si ritorcono poi contro noi stessi. Insicurezza e criminalità nascono da questo. È importante riflettere sullo sviluppo solidale. La mano invisibile del libero mercato crea il falso mito che tutti possano beneficiare della ricchezza. Solo quando c’è una vera solidarietà possiamo uscire dai drammi che ci affliggono».
Nell’agenda pubblica c’è questa sensibilità?
«Purtroppo ci sono tanti ostacoli. Ho molta fiducia nei giovani che possano rendersi conto dell’importanza di lottare per un mondo più giusto. A Firenze la figura del David è un simbolo: è un giovane che con una pietra tira giù il gigante Golia. È il modello che ci ispira».
Pace da ritrovare e ambiente minacciato: quali azioni alla portata di tutti?
«Due iniziative interessanti. Un gruppo di parrocchie che si è dato il nome Cristiani per la pace, e pregano per questo una domenica al mese, ha dato vita a un’iniziativa all’Isolotto, con un segno di riavvicinamento alla Comunità dell’Isolotto, un cammino molto promettente che nasce dalla base. Nell’attenzione all’ecologia integrale, i circoli Laudato Si’ si sono messi insieme nell’Oasi Laudato Si’ dei padri Comboniani».
Capitolo carceri: un’emergenza anche qui a Sollicciano?
«Lo è certamente. C’è un’emergenza educativa ancora più grande. Le statistiche dicono che in Italia nell’ultimo anno ci sono stati due suicidi a settimana fra i detenuti e uno al mese fra gli agenti penitenziari. Questo rivela una grande sofferenza. Credo sia importante non perdere la speranza anche nella rieducazione. In carcere ho incontrato tante persone, tanti educatori molto bravi, che fanno con passione il loro lavoro. Purtroppo fa sempre più rumore il male del bene, ma nella realtà di Sollicciano di bene ce n’è tanto. Forse parlare delle cose buone che vengono fatte può suscitare nelle altre persone il desiderio di interessarsi e mettersi a disposizione».
Firenze è più egoista o solidale?
«Il male e il bene ci sono da sempre. Il male fa sempre più rumore. Ma vedo che c’è tanta solidarietà. La Caritas per esempio in questo periodo si sta impegnando per aprire nuove case per accogliere detenuti a fine pena. Una sarà inaugurata a breve e l’altra fra un po’. Il rischio dello scoraggiamento e del disincanto lo vedo molto, ma solidarietà ce n’è tanta».
Da arcivescovo quanto le sta tornando utile la sua lunga esperienza missionaria?
«Sono stato in un Paese al 95 per cento musulmano, dove c’è stato un impegno molto bello della Chiesa nelle opere sociali che ha fatto sì che le relazioni con i musulmani fossero molto buone. Mi sembra che questo mi stia accompagnando. Più in generale mi piacerebbe trasmettere che ogni persona porta la sua ricchezza. Nell’incontro con gli altri possiamo diventare migliori. E anzi è importante per noi cercare di vivere delle relazioni molto forti con chi non crede, o con chi crede in maniera diversa. Quando ci lasciamo interpellare da questa diversità, possiamo vivere meglio la nostra identità. Per noi cristiani il rischio è trasformare la fede in ideologia, ma non lo è, la fede non è un'idea. È un incontro con le persone, è Gesù che apre nuovi orizzonti e ci permette di diventare fratelli e sorelle».
La nostra città è a crescita zero: cosa può dire ai giovani che pensano di mettere su famiglia?
«Riprenderei l’immagine del David che ci chiede di disobbedire alle paure. Le guerre si vincono con questi atti di coraggio: credere che proprio noi possiamo portare avanti questo mondo anche con un figlio è un modo per costruire la pace in maniera molto concreta».
A che punto siamo nella pastorale Lgtbq?
«Accoglienza significa che tutti sono chiamati alla salvezza. La conoscenza può aiutare a far cadere i pregiudizi. La questione morale è sempre in aggiornamento».
Su fine vita e aborto dialogo possibile?
«Sono temi etici molto sensibili che è importante non far diventare motivi di scontro ma un modo per far capire la bellezza della vita. Ricordo da studente di teologia che don Enrico Chiavacci insegnava che i peccati più gravi sono quelli relativi all’attaccamento al denaro, ossia che la vita ha valore solo quando si produce. Persone abbandonate e sole, vittime di questo sistema, vedono come unica soluzione togliersi la vita. Ma un problema non si risolve con un altro problema, così come l’aborto».
Papa Francesco parla sempre più spesso di prevenzione e repressione degli abusi sui minori, delitti mostruosi se compiuti da consacrati: a Firenze si può stare tranquilli? «Certamente dobbiamo essere sempre molto vigilanti su questo. Sia per quanto riguarda la formazione dei seminaristi, sia con il servizio diocesano per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili, sia con il centro di ascolto e la facoltà teologica con i suoi corsi specifici. I tipi di abusi sono tanti: la vigilanza è di rigore».
Le parole “per sempre” inquietano molti, anche chi è in cerca di senso: nota una ripresa del cammino vocazionale o siamo sempre in una parabola discendente?
«Chi non è pronto a impegnarsi per sempre in un progetto di amore, difficilmente riuscirà ad amare anche un solo giorno: dice San Giovanni Paolo II. La situazione precaria che stiamo vivendo scoraggia scelte definitive, ma sono convinto dell’importanza dei buoni esempi. Come ci ricorda il vescovo di Modena, la migliore pastorale vocazionale è un prete gioioso, che fa capire attraverso l’esempio la bellezza del dono. La crisi c’è, ma dobbiamo stare attenti a quello che viene dalla Francia, alle tante persone adulte che chiedono il battesimo. Un fatto che si sta verificando anche da noi, come un impegno da considerare per sempre».