Vichi
Sconfigge la morte? Non diciamo cazzate, mi sono lasciato un po’ andare... però quelle ragazze sono davvero come i fiori... Il cimitero, la gente in piedi, il grande cancello aperto. Un bacio a mio cugino, uno a sua figlia (non ho avuto il coraggio di dirglielo: era davvero bella, anche lei aveva il colore dei fiori, nonostante tutto).
Dopo un minuto sto già camminando insieme ad altre persone in un viale fiancheggiato dai soliti cipressi. Niente Messa. Si scende giù per il pendio lungo vialetti secondari, attraversando la nebbia bassa come quella dei film sui vampiri. Siamo nel dominio del silenzio, e ognuno dice la sua, chi è vivo vuole parlare, farsi sentire... voci che passano come apparenza sopra il muschio delle tombe antiche, in mezzo alle croci rugginose, voci meno concrete di un sogno.
Noi siamo vivi, ma loro, i morti, sembrano più veri. Hanno un inizio e una fine, una lapide, un luogo fisso. Noi vaghiamo ancora indeterminati. Stiamo andando più a valle, dove c’è ancora più silenzio. Il gruppo a piedi si divide in due. Si fatica un po’ a trovare il luogo della sepoltura, come se non volessimo arrivare. Ci facciamo dei cenni, ci bisbigliamo richiami, sembra una battuta di caccia. E la preda è una buca nel terreno.
Alla fine arriviamo, ci uniamo al gruppo. A una decina di metri da noi vediamo la bara, di legno chiaro.
È appoggiata accanto alla fossa. Lì vicino c’è una montagnola di terra e una ruspa gialla. Che ci fa in mezzo a queste facce smarrite una ruspa gialla? Ma non importa: nessuno la vede. Tutto intorno, nei campi fangosi, terra smossa, tumuli recenti, e un sacco di croci di legno provvisorie: sì, si muore davvero... e ne muoiono molti.
Intorno alla fossa quattro uomini in tuta, ognuno appoggiato alla sua pala come a un’arma mentre il nemico è lontano. Aspettano il permesso dei familiari per interrare la cassa. C’è molto silenzio, e anche indecisione.
I quattro spalatori sono immobili. Pazienza e sollecitudine muta: è il loro mestiere. Sono bugiardi, è inevitabile. Sono istintivamente delicati... ma poi, ci sono davvero quei quattro uomini in tuta blu? Mio cugino e sua figlia si staccano dal gruppo e si avvicinano alla fossa. Accanto alla cassa sono ancora una famiglia.
La figlia ha una rosa in mano, piange, vorrebbe tornare indietro, ma suo padre l’abbraccia, la ferma.
Stanno lì insieme, a guardare la cassa che scende, calata con due grosse corde rosse, fino al fondo della buca. Dietro di me ci sono i compagni di scuola della figlia. Li sento respirare, ma non mi giro a guardarli. Penso a poco prima.
Mentre camminavamo, un amico di mio cugino, un siriano, con il vapore che gli usciva dalla bocca raccontava che in Arabia, in uno dei rari luoghi adibiti alla sepoltura, lontano dalla città, nel deserto, si scava un buco nella sabbia e ci si cala dentro il morto, senza croci, senza lapidi, e senza cassa.
La sabbia, il giorno dopo, spostata dal vento cancella ogni segno: il morto può essere ovunque, nessuno lo trova più, né lo cerca. Le ossa si confonderanno con altre ossa, in fraterna mescolanza.
Forse, dice lui, è più giusto. Forse, penso io, è più difficile: la morte, è vero, è uguale per tutti, impone la sua uguaglianza.
Un deserto di sabbia che confonde le ossa di tutti, rendendoli uguali, è certo una metafora più vera della morte di una tomba con il nome... ma i vivi restano legati alla differenza, alla particolarità dei loro morti, e vogliono mantenerla. I vivi si abbandonano all’illusione...
Corrispondenza d’amorosi sensi... un’illusione irrimediabile quanto la morte.
La tomba è un dialogo con se stessi, e con la vita. Il morto che amiamo dorme il suo sonno in fondo alla nostra coscienza. Dentro di noi sentiamo il suo respiro. Ma è il nostro. Noi siamo lo specchio dei nostri morti.
(2- fine)