Sono lusingato che Alberto Sensini, direttore de " La Nazione", partecipando a un’inchiesta de "L’Europeo" sulle città italiane, si sia rifatto da un capitolo delle mie Cantafavole dove m’ero pro vato a svelare in pochissime pagine "il segreto di Firenze". Sensini, che non è fiorentino, ha avuto il garbo di non parlare direttamente dei nostri difetti, che sono molti, moltissimi; semmai ne parla indirettamente quando scrive che " Firenze sarebbe perfetta se avesse, oltre alle altre, due piccole virtù: un po’ meno di autocommemorazione del passato e un po’ più di autoironia". Io, che invece sono fioren- tino da non so quante decine di generazioni, posso prendermi il gusto di parlar male anche dei miei vecchi di casa, come fece il Berni in un sonetto e io ne "La parte davanti". Ebbene, sono pronto a riconoscere che i miei concittadini esercitano l’ironia molto più volentieri sulla pelle degli altri; ma che la risparmino a loro stessi non lo direi. Quanto poi alla "autocom memorazione" del passato, se si volesse continuare sullo stesso tono, direi esser molto difficile ai fiorentini non praticarla non essendo loro rimasto che quello. Ma se, una volta tanto, si voglia lasciar le facezie per un discorso più serio io, dopo aver dato in generale mille volte ragione a Sensini, tornerei, in questo particolare momento, a prescriverla loro come una medicina o come una salutare ginnastica. Ne dirò tra poco il perchè. In un altro articolo abbastanza recente ho così raccontato i secoli d’oro del popo- lo fiorentino: "Un popolo che, venuta la sua primavera, maravigliosamente secondo l’augurio de nome; un popolo che, senza le armi e la potenza che ad altre civiltà aprirono la strada, creò in una piccola patria una civiltà grande nei secoli. Poi, passata la sua stagione, anche la città del fiore sfiorì, come ieri sono sfiorite Roma, ieri l’altro Atene e così via a ritroso nel tempo ". Dopo le quali parole tuttavia, invece del Gloria, intonai il De profundis: per il presente e per il futuro della città suonai a morto. Ora, ripensandoci su, e ruminato ancora su quella " autocommemorazione", dico che Firenze ben fa a ricordare quei tre secoli, durante i quali seppe tirar fuori, in co- sì breve spazio di tempo e di territorio, un Dante, un Petrarca, un Boccaccio, un Giotto, un Masaccio, un Leonardo, un Michelangelo, un Machiavelli, un Guicciardini. Fa benissimo; ma, (come dicono nelle nostre campagne) il ful- mine non cade due volte nel medesimo luogo. Ecco, a me piace più e più consiglio ai fiorentini di rammemorare, e di meditare la lunga lezione di civiltà che tenne dietro a tanta grandezza. Ripassiamola e ripensiamo la insieme, quella lezione. Dopo che la città e il suo dominio dovettero accucciarsi sotto le ali di un principato paesano non troppo grifagno, e all’uggia di un’affumicata Controriforma, qui le cose andarono meno peggio che altrove. Quando Paolo IV incalzava coi rigori del suo Indice principati e repubbliche, Cosimo I ordinava che, quanto a bruciar libri, "si faces- se più dimostrazione che effetto"; insomma bastava, e avanzava, "un falò per osten tazione". Così, dopo i due roghi savonaroliani, quello che non si accese e quello che purtroppo si accese, non si videro in Firenze altri roghi che quel "falò per ostenta- zione". Qui, decadute in ogni dove le lettere, meno patimmo certi mali del secolo come il secentismo e il marinismo: avemmo invece la prosa scientifica di Galileo e della sua bella scuola; all’accademismo delle Accademie si affiancò l’Accademia del Cimento; qui l’Arcadia meno che altrove s’illeziosì. E anche quando la Toscana parve addormentarsi nelle sue molte felicità, fu un vivere più dolce: il principato fu meno assoluto, finchè fu retto da principi di una remota estrazione civile e mercantile; poi, quando gliene furono imposti di forestieri, parvero presto fiorentinizzarsi anche loro: soppresse la pena di morte, la tortura, le confische, concessa la libertà di culto, ammesso il libero scambio di merci e d’idee. I forestieri, viaggiatori o esuli che fossero, amiravano, si maravigliavano di quella cultura e di una larghezza di vivere più equabilmente diffuse; insomma una libertà, una umanità, una tolleranza che si riassumevano in una grande parola: civiltà.
CronacaLa lunga lezione di Firenze. Un viaggio a ritroso nella grandezza della città. E critiche alla realtà del tempo