Adan e le altre, le donne pakistane orrendamente deturpate dagli acidi che le gettano in faccia, addosso, mariti, spasimanti respinti, promessi sposi di matrimoni combinati. Oppure anche i familiari che si considerano ’disonorati’ perché quelle donne hanno scelto di non obbedire. Perché non si sono sottomesse. E’ di questi giorni peraltro la notizia dell’apertura – anche in Italia, a Brescia – del processo per l’omicidio di Sana Cheema, uccisa nel 2018 in Pakistan (secondo l’accusa dal padre e dal fratello) per il rifiuto di prestarsi a un matrimonio combinato. La ragazza fu soppressa nella patria d’origine: in Pakistan assolti tutti gli imputati, in Italia è stato aperto un nuovo processo.
"Il getto dell’acido, o anche peggio, come monito come punizione. E’ il dramma di una cultura ancestrale. Adan e le altre che presentano cicatrici deturpanti croniche hanno in genere dai ventidue anni in su. Noi gestiamo le ferite cicatrici. Ma le nostre cure non sono risolutive. E’ bene precisarlo subito. Tendono a mitigare gli aspetti disfuzionali" dice Francesco Ruffa, 59 anni, medico fiorentino, già medico di Careggi ("ormai vent’anni fa"). Ora fa la libera professione, "ma collaboro anche con l’Asl".
E’ impegnato a restituire una vita almeno un po’ migliore. E’ andato in Pakistan alcune volte ("con la pandemia ci sono stati più problemi ovviamente" e sono invece almeno cinque le donne dello stato dell’Asia meridionale (e quinto Paese più popoloso nel mondo) venute a Firenze per sottoporsi agli interventi e ospitate per una quindicina di giorni. "Lavoriamo con un’associazione in contatto con altre associazioni internazionali. A Firenze in particolare collaboriamo con una struttura di chirurgia, il Victoria Medical Center di via Scipione Ammirato.
In che cosa consistono i vostri interventi?
"Sono interventi di ricostruzione, tesi a restituire la funzionalità a varie parti del corpo, a mitigare gli aspetti disfunzionali. Alcune donne hanno cicatrici sul volto, su un braccio, sulle ginocchia. L’addome. Queste donne devono la sopravvivenza alle mille plastiche cui sono sottoposte. Che però fanno perdere funzionalità agli organi. Prendiamo a esempio l’addome: per via delle lesioni e dei successivi interventi, non si distende più. Queste donne non possono più avere gravidanze. Mi ha colpito molto un altro caso, quello di una 28enne che aveva perso le palpebre, un occhio, parte del naso, la cute del collo, i muscoli delle labbra. Aveva i denti completamente esposti. Noi abbiamo lavorato, nel suo caso come negli altri, per ripristinare la deglutizione, la masticazione".
L’esperienza in Pakistan?
"Il Paese è grande, ma per via di certe infrastrutture operiamo in condizioni da campo: c’è un team di colleghi anche di altre province".
Parla sempre al plurale, il dottor Ruffa. Sente molto il lavoro di squadra, unica condizione unica per migliorare la vita di queste donne violentate. Con lui collabora la collega Gabriela Vasilescu, 44 anni, romena, "medico che in Bangladesh e nello stesso Pakistan ha lavorato anche come unità di strada, i gruppi di volontari che vanno ad aiutare le persone più povere nei luoghi dove trovano ricovero per la notte, a progettare per loro un percorso di recupero" sottolinea Ruffa.
Dottore, lei ha già una discretamente lunga esperienza in questo campo d’intervento. C’è un dopo, un dopo un po’ più accettabile per queste vittime di abusi e prevaricazioni?
Il medico non si nasconde: "Sono condannate a sopravvivere. E all’inibizione sociale".
giovanni spano