di Stefano Brogioni
FIRENZE
Succede tutto in pochi minuti, forse addirittura secondi. Un fazzoletto di strade, una combinazione di spazi, punti di ritrovo e luoghi dove di solito la vita scorre. Stavolta no.
Erano le cinque e mezzo, ma domenica 29 dicembre a Campi Bisenzio ha vissuto un’alba turbolenta, culminata nell’omicidio del 17enne di Certaldo Maati Moubakir.
Luoghi e orari sono scanditi, grazie a telecamere e testimoni, negli atti dell’inchiesta che venerdì ha definitivamente raggiunto un punto di svolta, con l’arresto di tre presunti responsabili: Francesco Pratesi, 18 anni, Denis Mehmeti, 20, e Ismail Arouizi, 22, tutti di Campi Bisenzio).
Ma anche man mano che il castello probatorio diventa più nitido, c’è un punto che resta annebbiato nei racconti di chi, in un ruolo o nell’altro, fosse presente nella domenica di sangue di Campi Bisenzio: cosa abbia acceso quella scintilla di violenza feroce, cieca, ingiustificata. Forse non lo sanno neanche loro. Com’è probabile che i tre arrestati e Maati non si fossero mai visti prima.
La telefonata. Secondo il racconto di Arouizi ai carabinieri, il primo “pentito“ di questa storia atroce, sarebbe stata una chiamata a chiamare a raccolta il gruppetto di campigiani nei pressi del bar Ballerini, storico ritrovo delle colazioni di fine serata. Nessuno degli arrestati, infatti, aveva trascorso il sabato notte a Campi Bisenzio, come invece aveva fatto Maati.
E Maati era sicuramente ai giardini della scuola media Matteucci quando c’è stato un primo diverbio che, secondo almeno una testimonianza, avrebbe coinvolto relativamente pochi ragazzi. Ma dopo questo primo screzio potrebbe essere partita una “chiamata alle armi“. Uno del gruppetto dei campigiani si sarebbe "preso con qualcuno", così sarebbe scattato il ritrovo nei pressi del bar.
I coltelli. Sempre secondo il racconto di Arouizi, sarebbe stato uno dei sei indagati (D.V., non colpito dalla misura cautelare) che, abitando nei pressi della zona “calda“ dell’aggressione, sarebbe andato a casa a prendere dei coltelli da cucina. Ma sulla scena, secondo le testimonianze ci sono anche almeno un casco, dei bastoni, una bottiglia e, secondo l’autopsia, anche un’arma a doppia lama tagliente, forse una roncola.
Dai giardini a via Tintori. Alcuni testimoni oculari descrivono una scena molto simile accadere per strada: una decina di persone, per qualcuno anche venti, che si accaniscono contro una sola persona.
I testimoni sentono anche questo ragazzo implorare, in italiano, di essere lasciato in pace.
"Fra, non sono io", "non c’entro nulla, non ho fatto nulla", "lasciatemi vi prego": è Maati che, in balìa del “branco“ che si sta accanendo contro di lui, cerca di sfuggire a quello che sembra un vero e proprio pestaggio.
Perché, dagli elementi con cui sono stati ricostruti i fatti, pare davvero difficile parlare di rissa. Sembrano infatti tutti contro Maati (anche se non si capisce che fine abbiano fatto i suoi amici e come si siano comportati) e, tra le voci, qualcuno lo addita dicendo "è lui, è lui".
L’arrivo del bus. Quando da via Buozzi arriva il 30 che svolta in via Tintori (è un mezzo probabilmente diretto verso il capolinea) molti ragazzi corrono in direzione della fermata, posta su quella via. Anche Maati, che è già ferito anche da coltellate, oltre che dalle bastonate e dai calci e dai pugni, corre verso il bus. Ma il branco si mette a dargli la caccia e quando sta tentando di salire, viene colpito di nuovo e tirato giù dal mezzo: una scena interamente ripresa dalla telecamera del mezzo. Il giovane riuscirà soltanto a fare qualche metro, prima di accasciarsi definitivamente.
Il branco a questo punto scappa. In macchina, il 18enne Pratesi, uno degli arrestati, avrebbe detto: "L’ho ammazzato".