MARCO
Cronaca

La telefonata che turba la mattina. Un flusso di pensieri in processione

Mentre i fatti scorrono, la mente segue un suo corso, riflettendo su vita, morte, ruspe e... ragazze

Vichi

Ho visitato una città di morti, in cima a una collina. Un cimitero con viali e contrade, quartieri nuovi e antichi, cipressi secolari e cipressi appena piantati.

Tutto intorno altre colline e altri cipressi, moltissimi cipressi... è questo che fa pensare a chi viene da fuori che su queste colline ci siano moltissimi cimiteri, non sanno che in questa zona anche le ville hanno i cipressi. Ero con mia madre, che per tutto il tempo è rimasta in silenzio.

Nel cimitero c’era la nebbia, a dare ancora più irrealtà all’irreale, a coprire di ombre luminose quello che è già difficile da capire. Il sole, volendolo cercare, è una luna piena perfetta, soffocata dietro i vapori. Quando tornerò a casa, il ricordo più grande sarà il silenzio.

Un silenzio che sopravvive ai suoni, alle voci, a qualsiasi rumore. Impossibile non notarlo. Non è solo il silenzio del cimitero, è quello dell’evento, è quello che leggo negli occhi di chi ancora non crede che chi amava è morto. Silenzio. Ho visitato una città non morta, ma silenziosa. Un cimitero, appunto. Un dormitorio. Stamattina dormivo, e mi ha svegliato il telefono. La morte mi spaventa, o forse non mi spaventa, mi rende incredulo, o forse non mi rende nemmeno incredulo... ma il pianto negli occhi di chi amava il suo morto mi commuove, mi sconvolge per istanti molto lunghi. Anche, forse, per tutto quello che di perduto e di perdibile riesce a farmi venire in mente... ma soprattutto perché, sviando la coscienza dal silenzio inafferrabile della morte, quel pianto sa imporsi con la sua vivezza – in una lingua nota – a chi solo qui, tra i vivi, può trovare l’illusione di un senso. Il dolore fa parte delle nostre conoscenze, le sue espressioni sono infinite ma appartengono a un linguaggio che comprendiamo: non la morte, con i suoi mutamenti inauditi, con la fissità, con il silenzio irreversibile, e soprattutto con quell’insopportabile unione di vicinanza e di lontananza. Alle nove di stamattina ho saputo da mio cugino che sua moglie era morta.

"Ancora non ci credo" mi ha detto. In questi casi dicono tutti così, lo trovo normale. Scendo in città. Il mondo mi sembra enorme, e grigio. Belle ragazze sbucano fuori dal grigiore: i loro occhi, i sorrisi, sono come i colori dei fiori. Insieme a una vago e incomprensibile senso di colpa mi impongono con i loro richiami naturali, ancestrali.

Quelle ragazze sono davvero come i fiori. Nei visi, negli sguardi, hanno la forza antica della Natura, sono l’energia che fa ruotare il mondo. In loro scorrono le prime gocce di un fiume che arriverà all’oceano, sono il primo intreccio di una corda che finisce e ricomincia con la vita, che sconfigge la morte... Sconfigge la morte? Non diciamo cazzate, mi sono lasciato un po’ andare... però quelle ragazze sono davvero come i fiori... Il cimitero, la gente in piedi, il grande cancello aperto. Un bacio a mio cugino, uno a sua figlia (non ho avuto il coraggio di dirglielo: era davvero bella, anche lei aveva il colore dei fiori, nonostante tutto). Dopo un minuto sto già camminando insieme ad altre persone in un viale fiancheggiato dai soliti cipressi. Niente Messa. Si scende giù per il pendio lungo vialetti secondari, attraversando la nebbia bassa come quella dei film sui vampiri.

Siamo nel dominio del silenzio, e ognuno dice la sua, chi è vivo vuole parlare, farsi sentire... voci che passano come apparenza sopra il muschio delle tombe antiche, in mezzo alle croci rugginose, voci meno concrete di un sogno. Noi siamo vivi, ma loro, i morti, sembrano più veri.

Hanno un inizio e una fine, una lapide, un luogo fisso. Noi vaghiamo ancora indeterminati. Stiamo andando più a valle, dove c’è ancora più silenzio. Il gruppo a piedi si divide in due. Si fatica un po’ a trovare il luogo della sepoltura, come se non volessimo arrivare. Ci facciamo dei cenni, ci bisbigliamo richiami, sembra una battuta di caccia. E la preda è una buca nel terreno. Alla fine arriviamo, ci uniamo al gruppo. A una decina di metri da noi vediamo la bara, di legno chiaro. È appoggiata accanto alla fossa. Lì vicino c’è una montagnola di terra e una ruspa gialla. Che ci fa in mezzo a queste facce smarrite una ruspa gialla? Ma non importa: nessuno la vede.

Tutto intorno, nei campi fangosi, terra smossa, tumuli recenti, e un sacco di croci di legno provvisorie: sì, si muore davvero... e ne muoiono molti. Intorno alla fossa quattro uomini in tuta, ognuno appoggiato alla sua pala come a un’arma mentre il nemico è lontano. Aspettano il permesso dei familiari per interrare la cassa. C’è molto silenzio, e anche indecisione. I quattro spalatori sono immobili.

(1- continua)