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"L’abito non identifica più. Ora contano altri valori"

La sociologa: "Hanno perso forza i rapporti formali. Manca creatività"

Silvia Pezzoli è professoressa associata di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi dell’Università di Firenze. Come è cambiato, in particolare dopo il Covid, il significato del vestire e come incide nella crisi attuale della moda?

"Il Covid ha segnato un cambiamento rilevante nella nostra società, ma forse la moda aveva già risentito di un cambiamento precedente. In particolare penso agli aspetti che riguardano l’identità che da sempre sono intimamente legati al modo in cui ci presentiamo. I primi studi sociologici sulla moda risalgono all’inizio del ’900 e mettono in evidenza come questa rappresentasse un modo per definire la propria appartenenza sociale. Più spesso, gli studi ci parlano della moda quale meccanismo di emulazione degli strati sociali più alti. L’abbigliamento era, dunque, uno strumento attraverso il quale si cercava di dar vita ad un processo di mobilità sociale. Adesso invece la moda ha cambiato faccia e direi che ha più facce".

Quali cambiamenti ha subito?

"Sono arrivati ad aver peso, nelle scelte delle persone, valori che sono presenti trasversalmente in tutti gli strati sociali, quali la sostenibilità ambientale e sociale che rappresentano un richiamo forte a cambiare i nostri comportamenti".

La crisi dei consumi è legata anche a questo? Quali possono essere le ragioni?

"Certamente sulla crisi dei consumi pesa il difficile momento economico. Bisogna rilevare però anche una grande diffusione del second hand, della tendenza al riuso oltreché al riciclo. Questa è una sensibilità acquisita e positiva se pensiamo all’ambiente, ma limita il consumo. Del resto, le montagne di plastica nell’oceano, vedi la Great Pacific garbage patch, sono immagini frequenti e tutti sappiamo che l’idea del consumo come portatore di felicità, sottotesto di molte pubblicità, oggi non funziona più".

Perché oggi non ci si mette più il ’vestito della domenica’?

"Perché è diventato quello del lavoro e così nei momenti liberi puntiamo a qualcosa di rilassante, di non costretto. Inoltre passiamo molto più tempo in spazi chiusi e virtuali. Una parte della costruzione dell’identità avviene spesso in questi spazi, basta pensare ai profili social. Oggi abbiamo identità più mutevoli, non ci sono solo alcuni stili e modelli da rincorrere, ce ne sono molti e più sfumati in accordo con diverse sensibilità e valori. Si percorrono altre strade per costruire identità".

Perché, guardando anche alle giovani generazioni, il modo di vestire sembra cambiare sempre meno in funzione delle occasioni?

"Perché è cambiato il rapporto con l’autorità e non sono più così nette le distinzioni funzionali. Ad esempio, non si percepiscono più i professori come persone diverse dai nostri pari, quindi non c’è bisogno di vestirsi in modo diverso per stare a scuola. Viviamo in una società in cui acquistano valore i rapporti informali e perdono valore quelli formali. Si tratta della cosiddetta società della rete, la network society".

Qual è stato l’impatto dei social?

"I social si sono inseriti in un già avanzato processo di individualizzazione della società e hanno contributo a rafforzarla. Prima le generazioni erano riconoscibili dallo stile del vestiario e al loro interno erano identificabili alcune sub culture generazionali".

Che consiglio darebbe per rilanciare la moda?

"La moda vive, tra le altre crisi, anche una di creatività che si potrebbe contrastare investendo in formazione e ripensando al suo valore culturale specie per un paese che per tempo è stato riconoscibile nel mondo attraverso il Made in Italy".

Leonardo Biagiotti