BARBARA BERTI
Cronaca

L’attrice ’innamorata’: "Il primo palco fu la cucina. Per un’idea mi gioco tutto"

La passione diventata mestiere, le battaglie per le donne e i figli maschi da crescere "Da bambina inventavo personaggi immaginari". Poi Ozpetek, Pedullà e Pieraccioni.

La passione diventata mestiere, le battaglie per le donne e i figli maschi da crescere "Da bambina inventavo personaggi immaginari". Poi Ozpetek, Pedullà e Pieraccioni.

La passione diventata mestiere, le battaglie per le donne e i figli maschi da crescere "Da bambina inventavo personaggi immaginari". Poi Ozpetek, Pedullà e Pieraccioni.

"Una donna innamorata di tutto e addolorata per tutto. Una creatura mai indifferente, finché dura". È Gaia Nanni, l’attrice fiorentina classe 1981, diplomata al Teatro Puccini, nota per aver lavorato, tra gli altri, con Ferzan Ozpetek, Gianfranco Pedullà, Maurizio De Giovanni e Leonardo Pieraccioni.

Come e quando si è avvicinata al teatro? "Il teatro nella mia vita c’è sempre stato. Fin da piccola obbligavo la mamma a sparecchiare in fretta e furia il tavolo per lasciarmi le assi senza tovaglia, montarci sopra e fare uno spettacolo. Le prime ’vittime’ sono stati i poveri parenti di casa, magari venuti solo per cenare in pace. Solo la nonna continuava a ripetere: ’Questa figliola deve fare qualcosa, via, portiamola da qualche parte’. Alla fine non mi hanno mai portato da nessuna parte e la nonna se n’è andata prima di sapere che quella bizzarria sarebbe diventata il mio lavoro e la mia più grande passione".

Da bambina cosa sognava? "Di essere meno sola, da figlia unica riempivo i miei giorni di personaggi immaginari. Nomi buffi, voci strane, presenze che tenevo con me. Forse a un tratto sono caduta nella megalomania di essere una principessa, idea durata però il tempo di un giorno. Sentivo che inventare storie, che facevano ridere gli amici, mi rendeva felice. Non sapevo che quella cosa avesse un nome, potesse diventare un mestiere e un modo di stare al mondo".

Cosa significa per lei il teatro? "Se fatto bene può essere materia di tutti noi al pari della politica, della scienza e di quei beni di cui la comunità si serve. Se fatto con amore ci porta a fare il punto sull’uomo e può riportarlo, finalmente, al centro della narrazione. Personalmente è anche una palestra empatica per mettermi nei panni dell’altro".

Ha avuto un’esperienza di recitazione in carcere con Gianfranco Pedullà. Ci racconta? "Eccolo là, il teatro come fatto pubblico, appunto. Sederci attorno a una storia, ognuno con le proprie crepe e con la propria poesia. Il teatro come fatto umano che accade e che può accadere solo lontano dai pregiudizi e si accende nei luoghi più insospettabili".

Dove nasce il suo impegno civico e sociale? "Non saprei, sicuramente essere nata in una famiglia di musicisti e militanti potrebbe avere aiutato. Penso allo zio Vito, professore di Filosofia, che ancora oggi dall’alto dei suoi 80 anni scende in piazza e imbraccia bandiere sempre al fianco dei più deboli. Forse sono una pallida imitazione di ciò che ho respirato in casa, però posso dire che non posso farne a meno. Non esiste nulla di più urgente di prendere posizione, denunciare un’ingiustizia, spesso superando una posizione di buon senso e di salvaguardia personale. È come se ci fosse qualcosa più grande di me che mi governa, che non rinvia ad altro ma sta nel bene per il bene, il giusto per il giusto. E io per un’idea potrei ancora oggi giocarmi tutto, anche il sonno".

La condizione delle donne le è molto cara: a che punto siamo con la parità? "Se non molliamo il punto, forse riusciranno a goderla le nostre nipoti. Inseguirla come bene esperibile fin da subito è pura utopia. Guardiamoci intorno: in Italia solo il 4% dei Ceo sono donne e, se parlo di un ambito che conosco, attualmente in Italia nessuna donna dirige uno dei sette teatri nazionali. Abbiamo solo tre donne fra i 18 direttori dei teatri più importanti. I vertici del teatro italiano sono saldamente occupati da uomini e anche di una certa età, tutelati oltretutto da bandi pubblici che sempre più spesso richiedono requisiti per accedervi che solo loro hanno. Con questi limiti, le donne vengono escluse da ogni possibilità partecipativa. Teniamo botta ma in un contesto in cui di fatto non possiamo giocare nessuna partita. Nel mio piccolo mi ostino a pensare che una ingiustizia non sia mai un fatto privato, ma di tutte. Ed è per tutte che non sto zitta e parlo, finché ho fiato".

Altro tema per cui è sempre in prima fila: la violenza sulle donne. Da mamma di due maschi, come affronta la questione? "Come posso, ma con tenacia. Cerco di non far passare quelle piccole cose di cui è bene discutere insieme, magari a cena e magari anche quando nessuno ne ha voglia. Una rompiscatole di prima categoria, in breve. Faccio un esempio: l’altra sera è venuto fuori che la mamma di un loro amico non ha un conto in banca e nemmeno un bancomat. Usa quello del marito. Ho cercato di capire con loro se la libertà di quella donna, un domani, potesse non essere considerata una piena libertà nel riprendersi la sua vita, occuparsi dei suoi figli il giorno in cui avesse deciso di non essere più la moglie di quell’uomo. Anche qui forse si tratta di resistenza, pensare che nessun argomento è troppo piccolo per non esserne discusso e che la violenza ha tante facce ma un nemico che la infastidisce molto: la libertà".

Che mamma è? "Sono una mamma del partito ’io speriamo che me la cavo’, ho la fortuna di amare parecchie delle bischerate che piacciono a loro, dai pigiama party improvvisati alle schifezze da mangiare sul divano. Mi considerano ancora oggi uno spazio divertente in cui abitare insieme e di questo sono grata. Non sono troppo esigente sulla loro performatività. Mi ripeto che non sono venuti al mondo per rendermi felice, sono io che forse, maldestramente, devo accompagnarli nella ricerca di quella che sarà la loro felicità".

Culturalmente come giudica Firenze? Cosa va e cosa no? "Mi piacerebbe che si capisse la non troppo sottile differenza che separa la cultura dall’intrattenimento. Nutrire questa differenza, tutelando la sostanza dei progetti e dei loro attori, al di là dei numeri e del nome di richiamo in cartellone, potrebbe ricentrarci su una qualità che va via via scomparendo. Se ci facciamo guidare solo dai numeri dovremmo dirci che non stiamo facendo arte ma spettacolo. E non è il mondo dello spettacolo oggi a rischio, con influencer sempre più ricchi, ma quella comunità di persone competenti che fanno cose di qualità e che restano a casa perché l’unico parametro è essere famosi".