ERIKA PONTINI
Cronaca

L’avventura, 50 anni dopo: "Tra i coccodrilli del Nilo azzurro siamo diventati uomini"

Jacopo Mazzei, oggi 70enne racconta la spedizione in Africa con tre amici fiorentini in occasione dell’uscita del docufilm Abbay. "In memoria dei compagni che non ci sono più".

L’avventura, 50 anni dopo: "Tra i coccodrilli del Nilo azzurro siamo diventati uomini"

"Momenti di sconforto tanti, ma sono stati più quelli di quando stavamo organizzando la spedizione e pensavamo che non ce l’avremmo fatta - pochi soldi e i permessi che non arrivavano mai -, piuttosto che quando siamo effettivamente entrati in azione. L’adrenalina, la voglia di farcela, lo spirito di gruppo hanno prevalso. Paure tante, dai coccodrilli al timore delle rac’era niente da fare, se non andare avanti. E ce l’abbiamo fatta. Quell’esperienza incredibile è diventata il faro delle nostre vite". Vengono quasi i brividi a ripercorrere con Jacopo Mazzei, 70 anni, imprenditore e manager di successo, l’avventura di cinquant’anni fa, un viaggio epico nell’Africa più impenetrabile. Allora più impenetrabile che mai. La prima discesa del Nilo Azzurro a bordo di due gommoni, compiuta da quattro studenti fiorentini: Filippo Lovatelli, appunto Mazzei, Bernardo Tori e Vieri Calamai. Una spedizione oltre i limiti dell’irragionevole che oggi diventa un docufilm “Abbay” dal nome arabo del fiume che dall’Etipia al Sudan si unisce con il Nilo Bianco per formare il più lungo corso d’acqua al mondo. Sedici giorni per navigare i 1700 chilometri arrivando a Khartoum. Là furono accolti come conquistatori.

Mazzei, torniamo al 1973. Come nacque l’idea?

"A quell’epoca ci eravamo già cimentati in prove minori: la discesa dell’Arno, il viaggio fino a Parigi attraverso i fiumi. Ma c’era quell’attrazione per l’Africa e per un’impresa estrema. Fu quasi per caso che mi imbattei nel racconto del Nilo Azzurro: l’Everest dei fiumi. Difficoltà fisiche e problemi di isolamento, malattie, rapide e cateratte impossibili. Provammo a studiare l’operazione, non era semplice. Filippo incontrò il capo della spedizione inglese che nel ’68 aveva percorso un tratto del fiume. Avevamo i documenti e ci provammo".

Ma…

"Erano tempi difficili: i permessi, la burocrazia, difficoltà enormi. Impiegammo un anno intero".

Sarà costato un bel po’…

"Di soldi ne avevamo pochissimi ma grazie a contatti familiari riuscimmo ad agganciare alcuni gruppi che ci fecero da sponsor con materiali e carburanti, l’Egypt Air ci fece volare in Sudan, tecnici e funzionari dell’Agip ci ospitarono in casa. Con il cash ci siamo arrangiati".

Di quanto parliamo?

"Avevamo un budget di 5-6 mila dollari. Niente per quell’impresa, al limite della sopravvivenza".

Eppure siete partiti, senza paura. Le cronache di allora raccontano di un fiume infestato dai coccodrilli…

"Una delle cose che più ci aiutato è essere stati veloci, la parte pericolosa l’abbiamo percorsa in 7-8 giorni e abbiamo seminato chi poteva avvicinarci. Oltre agli animali eravamo un bersaglio per le rapine: avevamo fucili e macchine fotografiche".

Le famiglie, come la presero?

"All’inizio con scetticismo. Poi pian piano le abbiamo coinvolte e ci hanno supportato. Se penso alle famiglie di oggi sembra impossibile. Io stesso non so se avrei mai autorizzato mio figlio. Ma mio padre era un uomo aperto alle sfide e quindi alle fine ci ha creduto, anche se è stato molto preoccupato. Filippo veniva da una famiglia di militari, il padre non c’era più ma la mamma, una Ricasoli, ci aiutò tantissimo anche a scrivere le lettere in inglese per ottenere i permessi. Bernardo ebbe un’esperienza simile alla mia. Vieri era più grande, aveva 38 anni ed era autonomo. Nato in Libia, conosceva bene l’Africa".

E’ mai più tornato laggiù?

"La prima volta nell’85 quando lavoravo all’Agriconsulting. Collaboravo con un gruppo di italiani a un progetto agricolo vicino alla valle del Nilo. Per anni, fino al ’90 ho fatto avanti e indietro andando a rivedere quei posti, come erano cambiati".

Cinquant’anni sono tanti. Cosa le resta di quell’avventura?

"Un’immensa eredità che vorrei lasciare ai giovani. Per dire loro che con la volontà, la determinazione, il coraggio e la dedizione si possono fare cose che sembrano impossibili".

Bisogna crederci, insomma.

"Per quei tempi, per la nostra età, la spedizione sul Nilo Azzurro, un fiume insidioso in una terra difficile, era considerata un’avventura fuori dalla nostra portata. Qualcuno ci dava per morti da subito, altri ci guardavano come se fossimo matti. E invece ce l’abbiamo fatta".

Ne ha tratto un insegnamento di vita…

"Mi è rimasto dentro un concetto: che se si crede nelle proprie idee e si portano avanti, sempre ragionando, mai andando allo sbaraglio, si possono fare cose che sono difficilissime. Direi impensabili. Da quel viaggio ne siamo usciti tutti con una grande consapevolezza di noi stessi che ci ha accompagnato nelle nostre vite".

Perché un docufilm?

"Ho incontrato un amico straordinario il regista Lorenzo Bojola, mi ha trascinato in un progetto che non credevo possibile. Mi ha sorretto la volontà di ricordare due amici di quella spedizione che non ci sono più, Filippo e Vieri, compagni indimenticabili. E’ un film dedicato a loro".

E’ anche un messaggio…

"Sì, rivolto ai nostri ragazzi di oggi: credete nei vostri obiettivi".

Perchè oggi non c’è questo sentimento nei giovani….

"Manca il senso della sfida, è tutto a portata di mano. Il mondo sembra più digitale che reale. Si rincorrono cose che hanno molto di virtuale poco di concreto. Direi che la ricerca dei propri limiti e di superarli è venuta a mancare. I nostri erano altri tempi: noi uscivamo dal ’68, un periodo difficile e una società divisa. Eravamo a confronto con un mondo complesso e ci siamo trovati un modo per misurarci".

Ovviamente sarà in prima fila alla prima di Abbay?

"Certamente, con tutta la mia famiglia. Più di tutto spero che il docufilm trasmetta ciò che abbiamo vissuto. Una sfida che ci ha fatto diventare uomini".