di Antonio Passanese
Chi lo conosce afferma che “la coerenza è il suo tratto distintivo”. E infatti, Leonardo Domenici (classe 1955 e una laurea in Filosofia Morale) fin da ragazzo ha sempre militato dalla stessa parte: prima con i giovani comunisti, poi con il Pci, Ds, Pds e infine con il Pd, che ha contribuito a fondare (fece parte del cosiddetto “Comitato dei 45”). Deputato al Parlamento italiano e a quello europeo, sindaco di Firenze per due mandati (1999–2009), nel 2014 Domenici, in piena “era Renzi”, decide però di ritirarsi dalla politica. E oggi, che in tasca non ha più alcuna tessera di partito, si sente “apolide”, ma con una spiccata simpatia per Elly Schlein. Nonostante abbia deciso di vivere, per ragioni affettive, tra il capoluogo toscano e Bruxelles, per la sua città natale nutre un sentimento forte, immutato.
Domenici, undici anni fa lei ha deciso di dedicarsi ad altro e di lasciare la politica. Si è trattato di un sacrificio o di un beneficio? "La svolta è avvenuta nel 2014, quando non venni rieletto al Parlamento europeo. Il mio rapporto col Pd si era consumato, ma il modo in cui tutto questo avvenne, mi dispiacque. Però, guardando retrospettivamente, oggi posso dire che è stata la mia occasione di cambiamento. Da più di dieci anni sono fuori dalla politica attiva. Ho deciso di dare inizio a un altro tipo di esperienza personale con al centro lo studio. Una strada si è chiusa, ma un’altra si è aperta. Va bene così".
E si è pure riscoperto poeta… "Non mi definisco poeta. Ho semplicemente scritto un libretto, una raccolta di pensieri che definisco “poetati” e che descrivono un percorso di riflessione".
Domenici, lei è cresciuto e si è formato nelle sezioni, nei circoli, tra la gente. E non ha mai rinnegato il suo essere comunista. Di lei dicono che l’incoerenza non le appartiene. Cosa ne pensa? "Rinnegare il passato non ha senso, rivendicare i propri cambiamenti sì. Posso dire che per me è stato importante essere un comunista italiano, che era una razza molto particolare".
A Firenze aleggia una leggenda metropolitana sul suo conto. Si racconta che lei, nel 1999 tutto avrebbe voluto fare tranne che il sindaco di questa città. Fu il partito, e in particolare il suo amico Massimo D’Alema, a imporglielo. E’ vero? "Questa è una ricostruzione falsa. Mario Primicerio, qualche mese prima delle elezioni, decise di non ricandidarsi. In un momento di particolare emergenza, i partiti del centrosinistra fiorentino mi proposero la corsa a sindaco. Allora ero a Montecitorio e nella segreteria nazionale dei Ds, ma di fronte a una proposta del genere non potevo dire di no. Poi, ovviamente Veltroni e D’Alema dettero il loro consenso".
Lei, a un certo punto della sua vita, ha deciso di trasferirsi a Bruxelles… "Chiariamo una cosa, io sono ancora residente a Firenze, città nella quale vivo almeno per sei mesi l’anno".
Ma da fiorentino che abita all’estero come vede la sua città ogni qualvolta ci torna? "Il fatto di distaccarmi e tornarci mi fa cogliere meglio novità e cambiamenti anche rispetto al periodo in cui sono stato sindaco. Prendiamo l’immigrazione, per esempio. Mi sembra che ci sia una situazione qualitativamente, oltre che quantitativamente, diversa rispetto a venti anni fa, che richiede politiche complesse e multiformi. Quando prendo il tram non vedo solo turisti, ma anche tanti residenti di origine straniera e mi chiedo: “Ma lo sanno dove stanno?”. È una questione culturale. Non basta parlare di accoglienza e inclusione o di sicurezza. Occorre costruire senso di appartenenza a un’identità storica cittadina. Firenze è un luogo dello spirito umano e come tale va sentita e vissuta. Bisogna provarci".
Parliamo di infrastrutture e in particolare di tramvia. Da Matteo Renzi in poi tutti se ne sono intestati la paternità. In verità.. "In verità la storia della tramvia è lunga e comincia dagli anni Novanta, quando fu deciso di realizzare questa infrastruttura invece della metropolitana. La giunta Primicerio fece un lavoro preliminare importante, ma furono la mia amministrazione e la maggioranza che ci sosteneva a dare la “spallata”. E questo anche grazie al grande lavoro di Beppe Matulli. Quando lasciai Palazzo Vecchio la prima linea era completata anche se non in esercizio. Venne inaugurata da Matteo (Renzi, ndr), ma il sentore che ho sempre avuto è che lui nella tramvia non ci credesse tanto. Forse non era nelle sue corde".
E Dario Nardella? "Ha avuto il merito di capire che bisognava riprendere e rilanciare il progetto realizzando nuove linee".
Parliamo di Tav. Gianni Biagi, suo assessore all’Urbanistica, concluse l’accordo e a distanza di anni finalmente ora la talpa è all’opera. "Anche su questo il lavoro di progettazione della giunta Primicerio fu considerevole. Come tutte le grandi opere presenta difficoltà e problematiche, ma una città è un organismo vivente e se non si sviluppa, rischia l’atrofia. Si conserva cambiando. E poi nel caso della Tav c’è un obiettivo preciso da raggiungere".
Quale? "I binari in superficie liberati dal traffico ferroviario di lunga percorrenza potranno essere dedicati soprattutto al trasporto urbano e metropolitano".
Leonardo Domenici, oggi, politicamente si sente rappresentato da qualcuno o si definisce un apolide di sinistra? "Provocatoriamente rispondo che posso definirmi “apolide politico“ ma prima di dirmi di sinistra dovrei innanzitutto capire cosa è diventata oggi la sinistra. Provengo da un’esperienza che ormai non esiste più. Però guardo con simpatia a Schlein".