LUCA
Cronaca

L’ispirata prefazione di D’Annunzio. L’eroe moderno è come un’aquila. Un inno all’aviatore e all’amico. Il re dei cieli, Francesco De Pinedo

Quello che segue è l’unico testo di Gabriele D’Annunzio apparso sulle colonne della Nazione. Il 23 dicembre 1927 il nostro quotidiano pubblicava la celebrazione del Vate sul “trasvolatore oceanico“.

L’ispirata prefazione di D’Annunzio. L’eroe moderno è come un’aquila. Un inno all’aviatore e all’amico. Il re dei cieli, Francesco De Pinedo

Gabriele D’Annunzio fu appassionato di volo. Sulle colonne della Nazione celebra Francesco De Pinedo

A Francesco De Pinedo.

Quando i due scafi del tuo velivolo oceanico si calarono nelle acque del Benaco portandomi la tua diritta amicizia in prua, io, nella ghiaia della riva avevo lo spirito tanto sollevato dalle forze della tua compiuta impresa, e quasi impigliato dagli spazii del tuo respiro, o inasprito dall’asprezza dei tuoi stessi travagli, ch’ebbi subito a disdegno i testimoni del nostro incontro. E desiderai, chinando l’occhio fiso ai ciottoli, della somiglianza deducendo una imagine di sogno, desiderai di ritrovarmi teco in quella deserta sterilità, più spettrale di una landa selenite, non solcata se non dalle carreggiate dei torrenti aridi, non corrugata se non da rupi ferucigne, che tu scopristi nel divergere del corso del Rio Grande, commesso alla tua intrepidezza per fede e alla tua bussola per Ponente.

Te ne ricordi? Ma i veri e grandi prodigi non appariscono se non nello spirito, non avvengono se non nel profondo. E tu, in te li conosci, o Francesco, fratello che la bontà di Giovanni Pascoli, chiamerebbe minore e maggiore di anni minore, maggiore di Possa. Intorno alla stretta delle nostre mani, al battito dei nostri cuori, non fu solitudine come sopra le montagne rocciose o sopra l’Inferno Verde? Certo, tu ti ricordi con quanta durezza io mostrai il mio cruccio su per l’erta del Vittoriale, contro gli applausi da teatro, contro il clamore da circhi, contro il trepestio da comizi. Mi pareva che solo convenisse il silenzio raccolto e inteso a onorare l’eroe di terre lontane, di mari lontani, di patimenti e di accorgimenti senza numero.

Ma la barbarie governa ancora il costume, anche latino. La foglia di quercia per te, le foglie di quercia, di olivo, di lauro per me, sono celate in quell’avvenire che è più folto e più fosco di una foresta del tuo Matto Grosso: celate, ma certe. (…)

Caro Francesco, la più nova e pura espressione della mia arte non mi vale quel nostro colloquio senza parole, ch’io non saprò trasmettere se non all’armonia della mia agonia. Eravamo seduti negli scanni, tra lo zàino che serra la mia bandiera del Timavo e il cofano che chiude la bandiera della nave "Puglia". E veramente io ti vidi come ti vedeva l’uomo del motore dal suo posto, in volo sopra l’Atlantico.

E in me sempre così ti vedo, pur di là dal tuo sano riso e dalla tua schietta piacevolezza di compagno: – con la destra al volante, con la manca alla cintola, con lo sguardo tanto vigile che dà l’acume della pupilla al cristallo dello schermo, con la bocca serrata, col labbro di sotto avanzante il labbro di sopra, al pari di quell’Alighiero ch’io ti mostrai riscolpito da non so qual Buonarroto nel sasso di Manerba. E la mia poesia imagina che il tuo mento finga il conio dell’ignoto periglio, la bietta che senza indugi strigne o fende. (…)

Te ne ricordi? "Del monte, che tiene il nome del grande uccello, piglierà il volo il famoso uccello, ch’enpierà il mondo di sua gran fama". Con il medesimo indice mi segnasti le stupende linee del volo intrapreso e compiuto contro la fortuna, contro la fuggevole bagascia che "di retro è calva". (…)

E, come ricorreva il centenario di Nicolò Machiavelli, mi piacque di parlar contro la fortuna; e arditamente te l’augurai avversa pur nella tua impresa novella. E ti onorai non senza eloquenza, piacendo a me tu come al Fiorentino piaceva Agatocle siciliano che nel suo mirabile corso nulla mai dovette alla fortuna ma tutto a sé medesimo: tutto alla sua sagacia, alla sua audacia, alla sua costanza, alla sua premeditazione, alla sua preveggenza, alla sua disciplina, alla sua arte: all’arte di resistere, d’insistere, di vincere. (...)

Così, o marinaio, mi parve che si lacerasse la mia carne e si fendesse la mia anima quando – or è poche settimane – sentii squarciato dagli scogli del Cammin de’ Frati il mio guscio di Buccari.

E tu m’intendi come io t’intendo "all’altezza della parte mia più lieve". Ieri, nella Pinacoteca di Brera, mi fermai a guardare l’aquila disegnata con la sanguigna da Simone di Pesaro. Nel Castello sforzesco tralasciai le galline e le anitre di Angelo Maria Crivelli.

Milano: 14 dicembre 1927