di Stefano Brogioni
Aveva 88 anni, Federigo Mannucci Benincasa, e i misteri di Italia li aveva vissuti tutti. Da vicino o per qualcuno da dentro. La guerra fredda, piazza della Loggia, l’Italicus. Il terrorismo rosso e nero. Il sequestro Moro. Il Dc9 di Ustica e la strage di Bologna. Storie di morti di un’Italia irrequieta e di depistaggi che hanno allontanato, forse inesorabilmente, tante verità: gialli non ancora chiariti che porterà con sè, al cimitero del grazioso paese della campagna senese di cui era originario. Il generale dei carabinieri Mannucci Benincasa, per vent’anni capocentro di Firenze del Sismi - il servizio segreto militare, oggi Aise -, è morto sabato scorso in una casa di riposo di Bagno a Ripoli, dove ha vissuto i suoi ultimi mesi minati dalla malattia. Ieri, si è celebrato il funerale.
Fiumi di atti giudiziari, chili di carte delle commissioni parlamentari parlano di lui. E non necessariamente bene, anche se il colonnello, dai processi, è sempre uscito indenne. L’ultima grana giudiziaria gli piombò sulla testa proprio da Firenze: era il marzo del 1993 e per puro caso, da una stanza attigua a un appartamento in via Sant’Agostino che l’amico marchese Lotteringhi della Stufa aveva concesso al suo Servizio, spuntò un arsenale di armi perfettamente oliate avvolte in giornali di una decina di anni prima.
Era fresca la scoperta di Gladio, e quella santabarbara si sospettò che fosse di un’organizzazione clandestina tipo quella; anche se nessuno fece incredibilmente caso, nella città insanguinata dai delitti del mostro, che tra mitragliatori e fucili da guerra, c’erano pure dei proiettili inadatti per il calibro di quelle armi degli scatoloni, ma tristemente famosi a Firenze: Winchester serie H, quelli con cui uccideva il serial killer.
Dopo la scoperta dell’arsenale di Sant’Agostino, venne puntato anche dalla procura di Bologna, che nello stesso momento accusò Mannucci Benincasa di aver depistato le indagini sulla bomba alla stazione. Tra i fagotti di Santo Spirito, c’erano anche dei barattoli di latta, con un buco sopra, uguali a quelli trovati nella valigia dell’operazione “Terrore sui treni“, fatta ritrovare dopo la strage per indicarne la (falsa) matrice estera. L’esplosivo messo lì dentro, sarebbe stato conosciuto dai depistatori perché lo avrebbe rivelato il perito della procura emiliana, Ignazio Spampinato, pure lui operativo a Firenze. Ma quando le contestazioni si cristallizzarono, era passato troppo tempo: dunque prescrizione. E anche per le armi, dopo sei giudizi, arrivò l’assoluzione. Ma il pm Libero Mancuso, alla commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento Moro, descrisse il direttore del Sismi fiorentino, all’epoca colonnello, come "uno che ne ha fatte di tutti i colori".
"Noi - disse, ricordando il marzo del 1993 - siamo convinti che di lì a poco verrà arrestato. Viceversa, aspetto un giorno, un mese, un anno, ma non viene arrestato, nonostante i figli e lui stesso insultino, peraltro, i nostri collaboratori sottufficiali dei carabinieri. Resta sostanzialmente impunito per questa vicenda. Egli ci dice, però, che quella base serviva per avere rapporti molto delicati con uomini della criminalità organizzata e delle Brigate Rosse".
Qualche mese fa, in un colloquio telefonico reso difficoltoso per le forze che lo stavano abbandonando, Mannucci Benincasa negava che il suo informatore fosse Giovanni Senzani. Teneva molto, invece, a un suo appunto che parlava di Licio Gelli, finito anch’esso nei faldoni della sterminata storia giudiziaria dell’attentato del 2 agosto 1980. Lo aveva scritto nell’aprile del 1981, un mese dopo la scoperta della P2, al suo superiore, il generale Pasquale Notarnicola, con cui aveva avuto un rapporto burrascoso. Vedere Notarnicola in tv, a Report, gli aveva riacceso dentro una diatriba antica ma mai sopita, sul ruolo di Gelli: per lui, il Venerabile, "era sotto gestione sovietica". Sempre nell’aprile del 1981, con il colonnello del Sios dell’aeronautica, Umberto Nobili, avevano confezionato uno scritto anonimo spedito ai magistrati, che attribuiva a Gelli l’omicidio di un partigiano a Pistoia e un ruolo nella strage di Bologna.
L’allora capo del controspionaggio fiorentino venne additato come membro di quel "Super sismi" risultato impastato con la Loggia. Ma a differenza di altre ’spie’, non figurò nelle liste, almeno quelle note.
Tuttavia, la sua ombra si allungò insistentemente anche sui depistaggi di Ustica.
Presentandosi con il nome di copertura di capitano Manfredi, avvicinò due giornalisti per caldeggiare l’ipotesi dell’esplosione di un ordigno a bordo del Dc9. Poche ore dopo l’inabissamento dell’aereo, dal Centro Sismi di cui era direttore, partì una telefonata che collocava il terrorista nero Marco Affatigato sul Bologna-Palermo. Poi, farà un’informativa in cui ipotizzava che ad abbattere il velivolo sarebbe stata una bomba di Prima Linea, destinata al giudice istruttore fiorentino Vincenzo Tricomi, che effettivamente doveva salire su quel volo per una sua indagine in Sicilia, ma rinunciò poche ore prima. Nessuna di queste è vicina alla verità che si consoliderà faticosamente negli anni successivi. E ancora oggi non si sa perché.