Firenze, 20 luglio 2020 - Terra ricca, la Toscana, da sempre appetibile. Ora poi con la crisi da pandemia le mafie tentano di rilevare attività e beni a prezzi stracciati. Leggere alle voci usura, riciclaggio, intermediazioni e acquisti immobiliari. «E se consideriamo l’auto-omertà, la paura di affrontare le mafie in modo effettivo, di ammettere che sono molto presenti» la situazione presenta vere criticità. Ricorreva ieri il 28°anniversario della strage di via D’Amelio, la morte di Paolo Borsellino e della sua scorta, e Salvatore Calleri e Renato Scalia della Fondazione Caponnetto, intitolata al magistrato fiorentino che a Palermo guidò il pool antimafia dopo l’assassinio di Rocco Chinnici nel 1983, presentano il consueto report.
In evidenza le mire della ‘ndrangheta su lavori Tav (un posto di direttore dei lavori della stazione Foster promesso a un funzionario Anas corrotto) e sul porto di Livorno (e Piombino e dell’isola d’Elba). «E quando un’organizzazione criminale usa un porto, in parte lo controlla» dice Calleri. Ancora: a Firenze è finita in amministrazione giudiziaria un’azienda romana con addentellati calabresi che si è aggiudicata un appalto triennale (30 milioni, rinnovabile) di manutenzione delle strade e della Fi-Pi-Li. Rifiuti: in Toscana «si sversano. Nel 2013 lo faceva la camorra, nel 2017 imprenditori locali». Lo ‘suggeriscono’ «intercettazioni choc con frasi tipo ‘che muoiano i bambini non m’importà». Altre inchieste «hanno scoperto cartelli di imprese che usavano programmi per truccare le gare e permettere la rotazione delle ditte». Ma «la Toscana rischia di essere divorata da cosche che fanno ciò che vogliono»? Forse no, «ma si può definire terra di colonizzazione». A Firenze e hinterland radicati gruppi riconducibili a famiglie di mafia siciliane, calabresi e campane». Capitolo stranieri, agiscono «gruppi criminali albanesi, nordafricani e nigeriani-gambiani»; sull’asse Firenze-Prato la mafia cinese ha clan «forti e radicati» e «per i canali internazionali di riciclaggio si servono di un canale comune coi calabresi».
Giovanni Spano