Firenze, 29 giugno 2021 - Aveva la stoffa ostinata del cronista vecchio stampo, di quelli che si innamorano delle inchieste che seguono e ne diventano a loro modo protagonisti, indagando, documentando, scrivendo sempre e non mollando mai alla ricerca della verità. Mario Spezi, firma storica della “Nazione”, è stato uno degli ultimi discendenti nobili di questa categoria che è sempre più merce rara nel giornalismo veloce di oggi. Un giudiziarista di bellissima penna e caparbietà, segnato in qualche modo dall'inchiesta nel quale inciampò da giovane cronista e che non avrebbe mai mollato fine alla fine dei suoi giorni, pagando per questo anche prezzi altissimi e ingiusti.
Sì, Mario Spezi dalle colonne de “La Nazione” è stato il giornalista che più di ogni altro ha saputo raccontare la vicenda del Mostro di Firenze. Un esperto della materia da venire chiamato quasi da tutti “Il mostrologo”, termine del quale non andava nemmeno poi troppo orgoglioso. Anzi.
Sulla tracce del killer delle coppie Spezi si ritrovò quasi per caso: “Io mi occupavo di giudiziaria - ha raccontato - ma nel settembre del 1981 sostituii un collega nel “giro di nera” e mi ritrovati sulle colline di Scandicci il giorno dopo il duplice omicidio a raccontare la vicenda”. Un racconto lungo che da allora sarebbe durato altri 35 anni, ovvero fino al giorno della sua morte nel 2016.
Ovviamente, come ogni cronista di quella razza forte, Spezi entrò da subito dentro la vicenda con determinazione e passione, finendo per farsi un'idea propria intorno a quei delitti. Ovvero l'idea che l'omicida dovesse appartenere a quel clan dei sardi che in qualche modo era responsabile di un altro duplice delitto avvenuto nel 1968 a Signa, dove per la prima volta fu usata la pistola calibro 22 che poi firmò i delitti del Mostro. Idea che fra l'altro era la stessa sulla quale stavano lavorando i carabinieri.
Col passare del tempo, dentro quel clan Spezi individuò un personaggio preciso, arrivando perfino a intervistarlo e riportando i passi del dialogo con il suo “Mostro” in un libro, “Dolci Colline di sangue”, che firmò insieme al giallista americano Douglas Preston. Una scelta dirompente.
Certo che colui fosse appunto il killer delle coppie, quando la polizia smontò le indagini dei carabinieri e puntò i riflettori su Pietro Pacciani, Spezi fu fra i primi a dichiararsi perplesso, iniziando una sorta di controindagine giornalistica tesa a dimostrare la non colpevolezza dell'agricoltore di Mercatale val di Pesa, ritenuto un maniaco sessuale con il vizio del guardonismo ma non l'omicida cercato. Tesi questa difesa con ostinazione e puntiglio, che lo portò in rotta di collisione con gli inquirenti fino a un punto di non ritorno.
Il 7 aprile del 2006, con l'accusa folle di depistaggio e concorso in omicidio di Francesco Narducci, Spezi su ordine della procura di Perugia, fu infatti arrestato. In carcere restò ben 23 giorni (di cui 5 in isolamento) prima che la Corte di cassazione in istruttoria lo scagionasse completamente, definendo il suo arresto privo di fondamento. Una mostruosità giuridica, un rarissimo caso di arresto per “reato di parole” che segnò profondamente Spezi nell'anima e dal quale non si riprese più
Da allora, avendo sentito i graffi del torto ingiusto sulla propria pelle, si trovò spesso schierato dalla parte di chi denunciava una giustizia ingiusta. Successe in particolare con Amanda Knox, che certo non a caso era stata messa nel mirino dallo stesso magistrato che aveva firmato il suo ordine di arresto, ovvero Giuliano Mignini.
Spezi morì per un tumore nel settembre del 2016, eredità probabilmente del dolore del carcere, lasciando in eredità anche a questo giornale l'idea di un giornalismo a schiena dritta, curioso e non ossequioso alla verità ufficiale, che coniugasse alla notizia anche il bello scrivere. Una lezione che dovrebbe essere per sempre, qualunque sia il mezzo usato per fare questo mestiere.