Firenze, 11 novembre 2024 – Una cartella clinica complessa. Campanelli di allarme che, secondo il giudice della quarta sezione civile di Firenze, avrebbero dovuto far scattare specifiche diagnosi e soprattutto una terapia antibiotica ben mirata. Due ricoveri, in entrambi qualcosa è andato storto. E la paziente, purtroppo, è morta. La sanità fiorentina di nuovo in tribunale. Il caso, stavolta, è di una donna, all’epoca dei fatti 77enne, deceduta nel 2012 nell’ospedale di Prato dopo un primo ricovero al Serristori di Figline Valdarno.
Il primo ingresso al pronto soccorso è dispnea, ovvero difficoltà respiratorie, e risale al 2 gennaio 2012. Viene dimessa dopo 10 giorni, e in quel lasso di tempo viene monitorata a livello cardiaco, visto che soffre di scompensi importanti e nel 2010 si era dovuto sottoporre a cicli di radioterapia per un tumore all’utero. Gli esami evidenziano segno di insufficienza renale e la bronchite, le viene somministrata una terapia antibiotica e una per lo scompenso cardiaco. Passano dodici giorni e la pensionata, dopo una caduta in casa con frattura di un femore, torna in ospedale, questa volta a Prato. I medici si accorgono che ha una diarrea cronica e le viene prescritta una terapia antibiotica. Il 2 febbraio la situazione precipita e la 77enne muore.
Secondo il giudice Liliana Anselmo, sussiste quindi la responsabilità per aver tardivamente diagnosticato e curato l’infezione da Clostridium difficile, il batterio che ha provocato la morte della donna. E per questo, pochi giorni fa, ha condannato l’Asl Toscana Centro a risarcire le due figlie della donna con una somma che supera i 700mila euro. In particolare, il giudice spiega nella sentenza che l’infezione doveva già essere diagnosticata nel primo ricovero, e che tale mancanza ha “determinato il ritardo nella somministrazione della terapia antibiotica specifica (con prosecuzione di quella empirica) che ha poi determinato il decesso per una condizione di shock settico da cui è derivata l’insufficienza multiorgano, causa finale della sua morte”. La donna, quindi, poteva salvarsi e nonostante i chiari sintomi di infezione, “i sanitari non eseguivano idonei accertamenti per diagnosticarla e imprudentemente la dimettevano”.
La stessa infezione, conclude la giudice, è correlata alla carente assistenza igienico sanitaria ed “è stata contratta, con elevata probabilità, nel primo ricovero all’ospedale Serristori”.