Firenze, 23 dicembre 2019 - «Il babbo ora è in pace, il suo calvario è finito". Appena tre giorni fa Silvia Ghirelli aveva ricordato ancora una volta con un post dolcissimo suo babbo Gino, "il nostro Babbo Natale". Quasi un modo per continuare a dialogare con lui, bloccato in un letto d’ospedale dal 13 luglio 2017.
La notte precedente, alla guida del suo taxi, aveva portato due giovani fino a piazza Beccaria. Qui era successo l’episodio drammatico che ieri lo ha portato alla morte, a 69 anni, quando il suo cuore si è fermato per sempre. Per la famiglia si trattò di un’aggressione in piena regola, per la sentenza di primo grado fu una reazione “proporzionata all’offesa“ da parte dei ragazzi. "Un verdetto incomprensibile che continua a lasciarci di stucco – commenta ancora la figlia Silvia –, non volevo e non voglio che vadano in carcere sei anni, ma che vengano responsabilizzati. Ora il babbo è morto... è possibile che nessuno paghi niente?".
È la domanda che Silvia, con mamma Daniela, non smette di ripetere da quel maledetto 13 luglio. “Non dimentichiamo Gino“, c’era scritto sulle magliette indossate a una delle manifestazioni in nome del babbo. "Noi siamo state qui con lui tutti i giorni – ricorda ora –, ci davamo il cambio per assisterlo, lavarlo, vestirlo... Da una parte speriamo che in tutto questo tempo non si sia reso conto di cosa gli era successo, sarebbe un dolore in più". È anche per mandare via tutto questo dolore, che Silvia non ha mai smesso di ricordarlo su Facebook: "Ho in testa mille immagini, era un omone disponibile con tutti. Ho messo la sua foto vestito da Babbo Natale, amava tantissimo i bambini, si travestiva in tante occasioni per strappare un sorriso ai più piccoli. Tutto questo ormai non c’era più da tanto, troppo tempo. E ora è finito per sempre".
Si torna allora a quanto accaduto quella notte. Lo screzio sul pagamento della corsa, poi le botte, la caduta violenta sull’asfalto di Ghirelli. Il giorno dopo il malore a casa, la corsa disperata all’ospedale, l’ingresso in un tunnel senza sbocco. "Siamo convinte che debba essere riconosciuta la colpevolezza di quei ragazzi – dice ora Silvia –, non possono dire che non è successo niente. Vogliamo giustizia, mio babbo è stato due anni e mezzo confinato in un letto d’ospedale e ora non c’è più. Credo che a loro servirebbe un percorso per capire cosa hanno fatto, per essere responsabilizzati. E perché arrivi un messaggio a tanti giovani che la notte pensano sia normale eccedere con il bere e muovere le mani".
L’attenzione è ora rivolta al processo di appello, fissato per febbraio. "La notizia della data ci è giunta un po’ come un ’regalo’ e anche se siamo stati amareggiati dalla precedente sentenza, che ci ha fatto dubitare che la giustizia esista davvero, in fondo siamo ottimisti e continuiamo a sperare", aveva scritto Silvia proprio nei giorni scorsi.
Nel tardo pomeriggio di ieri ancora non era stato possibile fissare la data dei funerali. "Abbiamo avvertito l’autorità pubblica, attendiamo il via libera", dice Silvia. Per l’ultimo saluto a quell’"omone disponibile" che da due anni e mezzo ormai viveva in stato vegetativo. Per i suoi cari e i suoi colleghi, per tutti quelli che non hanno smesso di stargli vicino, sarà la pagina conclusiva di un addio lungo, lunghissimo, iniziato quella notte tra il 12 e 13 luglio di due anni e mezzo fa. Anche se l’ultima parola deve ancora essere scritta nelle aule di giustizia. © RIPRODUZIONE RISERVATA