
di Emanuele Baldi
"Come me la son vista brutta, gliè tremendo questo virus. Tremendo". Ma ci vuol ben altro che una malattia che si presenta con quel nome astruso poi, Covid 19, per infilzare la scorza rude e spiccia di Nappino, all’anagrafe Marco Lombardi da Santa Brigida, 74 anni, battuta fulminante e un serbatoio di umanità nel cuore. Se ha spiaccicato il coronavirus forse è anche per la pellaccia dura che si porta dietro, per quel piglio forgiato in una vita presa sempre a risate grasse e abbracci e pacche sulle spalle dei clienti del suo ristorante che tutti, anche a Firenze, conoscono. Ce l’ha fatta Nappino e ci racconta come. "Ho iniziato a sentirmi male la mattina del 10 marzo, avevo la febbre e un po’ di tosse – riavvolge il nastro – e così ho chiamato il medico".
Marco fa una pausa e tira il fiato. Fiato puro. Il suo finalmente e di nessun marchingegno ospedaliero. Poi prosegue: "Il medico mi ha detto di stare tranquillo, che probabilmente era solo un po’ di bronchite. Ma io continuavo a stare sempre peggio, respiravo con affanno". Nappino intuisce che c’è qualcosa che non va, il suo proverbiale buonumore scivola via nel baratro di brutte sensazioni. Scatta così la chiamata al 118, poi il trasferimento all’ospedale di Santa Maria Annunziata a Ponte a Niccheri. "Quando sono arrivato – dice – non respiravo quasi più, se non fossi arrivato in tempo avrei rischiato di morire".
Arrivano i giorni più difficili, resi più duri dall’arrivo in ospedale anche della moglie Andreia ("Purtroppo l’ho contagiata io e l’hanno ricoverata nella stanza accanto alla mia, per fortuna il virus l’ha colpita in forma molto più lieve, le donne sono più forti anche in questi casi...). Le condizioni della signora non destano particolari preoccupazioni. E’ forte, giovane e in salute.
Ma il ricovero continua e l’incubo diventa familiare. Per Marco arriva il momento più tosto. "Mi hanno messo il casco – racconta – e lì dentro è davvero un inferno. L’ossigeno che entra fa un rumore assordante, 24 ore su 24, non si riesce a chiudere occhio". Ha avuto paura di non farcela Nappino? "No, ho sempre sentito dentro di me che ne sarei uscito. A cosa pensavo dentro il casco? E’ una cosa strana, non si pensa a niente. Si cerca soltanto di respirare, solo quello". Si chiama istinto.
Fame d’aria, tensione, medicine, cortisone, catetere. Solo a metà mese Marco riesce a vedere un filo di luce. "Dopo qualche giorno il casco viene tolto e si indossa la mascherina per respirare - dice – A quel punto si comincia a stare un po’ meglio". Inizia la discesa, Marco riprende le forze, anche la moglie sta bene. "Martedì mi sono alzato, mi hanno fatto camminare per sei minuti in corridoio e poi mi hanno misurato i battiti". E’ fatta. L’ambulanza riporta la coppia a Santa Brigida.
"Com’è bello essere a casa" scrive Nappino in un post sulla pagina Facebook del paese e tutti lo abbracciano virtualmente. "Via, ci s’è fatta anche questa volta" sorride lui.
E ora sotto con la vita. Più forti di prima.