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"Nostro figlio morto per il parto ritardato". La battaglia dei genitori contro l’Asl

L'accusa: "Cesareo solo quando non si sentiva più il battito"

L'ospedale di Torregalli - San Giovanni di Dio (Germogli)

Firenze, 2 gennaio 2016 - «DOTTORE programmiamo questo parto. Mio figlio pesa già 3 chili e 600...» disse non senza timori la partoriente durante la terza visita al S.Giovanni di Dio, dove è presente una equipe strutturata per monitorare le gravidanze a rischio. «La programmazione è ancora prematura» l’avrebbe rassicurata il medico. Era l’11 agosto del 2015: otto giorni più tardi la donna e il marito ritornarono a Torregalli (quarta visita) molto decisi a far programmare la nascita. Il medico tuttavia li rinviò a un’ulteriore visita, il 25 agosto: il parto indotto sarebbe stato fissato in quell’occasione. Troppo tardi: il 24, il giorno prima, la donna non sentì il feto muoversi. La coppia si precipitò a Torregalli ma il piccolo non aveva più battito cardiaco. Parto indotto solo allora e drammatica conferma: il bambino – 4 chili e 270! – nacque morto. Uno choc per qualsiasi coppia, per qualsiasi madre, tanto più per una donna di 44 anni, che aveva già subito un aborto, a Empoli (la coppia risiede a Vinci), dopo vari tentativi di stimolazione ormonale e fecondazione con impianto nell’utero. E finalmente, la gravidanza, portata a termine, ma dall’esito tragico «per cause estranee alla gravidanza, ma riconducibili alla negligenza del personale medico» sottolinea l’avvocato Guglielmo Mossuto. Che ha depositato in tribunale una citazione per il riconoscimento della responsabilità civile dell’Asl in ordine al decesso e ai danni biologici e psichici subiti dai genitori mancati. E, in procura, una denuncia-querela per l’ipotesi di reato. Citazione presentata dopo che la mediazione obbligatoria è stata vanificata – stigmatizza il legale – «dalla scelta dell’Asl di non presentarsi all’incontro dell’11 dicembre».

PER SOSTENERE che il loro tanto atteso primo figlio si sarebbe potuto salvare, la coppia e il legale insistono su alcune evidenze. Primo l’autopsia: stabilì che il piccolo era «perfettamente sano». Era deceduto per soffocamento perché «troppo grande» in rapporto allo spazio e al poco ossigeno nella placenta, scarsamente irrorata di sangue. Secondo: le consulenze di parte di Lucia Astore, medico legale, Grazia Bonini (ostetricia e ginecologia) e Letizia Muzi (psicologa, psicoterapeuta). Affermano che la causa della morte «è da individuarsi nel ritardo ingiustificato nel parto». Precisa Bonini: «Un bambino a 38 settimane ha una maturità polmonare già compatibile con la vita e avendo stimato il peso 3,600 kg a 38 settimane non si capisce come mai, in modo ragionevole e prudenziale, non sia stato programmato un TC da eseguire alla 38esima settimana, o come tempo massimo alla 39...». Tenuti presenti l’età della donna, il rischio di diabete gestazionale considerato il peso del feto, e la patologia genetica che le ha reso sempre difficile restare incinta: il ‘fattore V Leiden’ (coagulazione del sangue) che impedisce il normale impianto e sviluppo dell’embrione. C’è poi un risvolto inquietante denunciato dal mancato padre, 37 anni: il primo incontro, in ospedale, con il medico che non programmò il parto indotto. «Parlando di un caso analogo al nostro, disse ‘in questo caso io non c’entro’, riconoscendo in modo implicito la propria responsabilità. E dopo, rivolgendosi a me, mi disse ‘tu hai ragione!’».

giovanni spano