LUCA
Cronaca

Oriente sotto la neve. Le montagne bianche e un cupo presagio di guerra. Poi all’improvviso il sole

Bruno Barilli il 3 dicembre 1927 pubblica sul nostro giornale uno dei suoi reportage dall’estero. I territori dell’impero ottomano erano ormai in completa dissoluzione e lui ne dà testimonianza. .

Bruno Barilli è stato uno scrittore, compositore e critico musicale di livello internazionale. Collaborò con La Nazione

Bruno Barilli è stato uno scrittore, compositore e critico musicale di livello internazionale. Collaborò con La Nazione

Rimasi ancora qualche giorno in quella città. Il cannone non tuonava più sulle alture circostanti. Un’ultima granata venuta a scoppiare in un porcile segnò la fine della conquista locale. Sull’anfiteatro di colline il gran cerchio di armati si rompeva. Sconvolti i bivacchi, gli attendamenti, le artiglierie, i carriaggi sgombravano quei luoghi. I nuovi reggimenti sopraggiunti passavan oltre allungandosi in coda ai primi. Tuttoo l’esercito s’allontanava impetuosamente verso Sud. Il tripudio per la fulminea vittoria s’andava spegnendo nella costernazione. Soltanto il crepitio remoto delle fucilate lacerava ancora a tratti il nebbione che si era abbattuto sull’abitato. Anche la malinconica stagione per una scorciatoia girando il calendario aveva anticipato i suoi tristi rigori. In quell’atmosfera cieca e sorda le poche pattuglie di ronda inciampavano a volte in qualche mor- to d’inedia. La nostra comitiva s’era dispersa in ogni direzione. Tremante di freddo, inzaccherato di fango sino alle caviglie tornavo verso la mia locanda e salivo su nella stanza dove l’aria gelata delle vicine montagne cariche di neve soffiava dentro per i vetri spezzati. Le botteghe stavan chiuse e sprangate per festeggiare il venerdì del turchi, il sabato degli ebrei, la domenica dei cristiani; in concluione il pànico enorme non era ancora scomparso e i mercanti esitavano a disserrare le imposte trepidando per i loro stracci colorati.

Volevi visitare il sudicio Bazar e i quartieri insidiosi? Con una rivoltella carica in tasca calavi nel dedalo delle viuzze pericolose e trovavi i tristi quadrivii piantonati da rotti fanali che portavano il candido cappellone di neve. I minareti allampanati si perdevano nella nebbia. Non un viso ti appariva, non una voce, non un gemito nasceva da quella quiete, e per quanto scantonassi un mare di catapecchie schiacciate e fu- mose ti stava intorno chiuso e muto come un cimitero. Se t’accadeva di seguire una pesta d’uomo sulla neve intatta sbattevi poco più in là in un cinematografista incappucciato come un mago, che stava intento a girare lentamente la manovella del suo apparecchio sullo squallido paesaggio ammantato di neve. L’Oriente s’era messo a letto ti randosi la sua coltre invernale fin sopra le orecchie.

La mia padrona di casa levando il braccio verso le montagne mai diceva, piena di terrore: sono tutti lassi fitti come le mosche, allu dendo alle minacce dei fuggiaschi. Guardavo con incredulità la catena nevosa distante un tiro di fucile; col naso ravvolto in una sciarpa di lana scrutavo per ore e ore attraverso il binocolo quel paesaggio polare dove non c’era che neve su neve, di quella più leggera e più soffice che la piuma dell’oca. Di ribelli nemmeno l’ombra. I più feroci erano stati gettati, nella notte, nel fiume; gli altri s’erano ammànsiti come agnelli. I primi giorni li avevo veduti anch’io, questi tipi selvaggi, vagare per le straducole col passo lungo elastico del montanaro e le mani affondate nelle saccoccie delle brache dove rispondeva forse la punta d’uno stiletto. Nelle prime notti dopo l’occupazione costoro avevano ucciso parecchi soldati e qualche ufficiale, ma poi le loro tasche e le loro maniche erano state frugate e vuotate dalla polizia, e oramai essi bighellonavano guardando il forastiero di traverso e girando al largo, rientravano per le porte basse nelle loro catapecchie tenebrose sol che vedessero spuntare un gendarme. Finalmente decisi di partire. Proprio quel giorno il sole era riapparso e coloriva quel mondo. Le montagne brillavano tempestate di diamanti, le case grondavano acqua ed una moltitudine pittoresca di uomini, di donne e di cani, non so di dove sbucati, correvano per le vie. Fragorose processioni di cannoni da fortezza tirati da dodici paia di buoi, fiancheggiati da artiglieri armati di frusta parti- vano per il teatro della guerra. Convogli innumerevoli di feriti giacenti sulla paglia dei carri, trainati e squassati, andavan lenti verso la stazione dove i treni ospedali, immobili, li aspettavano. Colonne su colonne di feriti leggeri giungevano anch’essi dopo tre giorni di marcia reduci di un’altra battaglia.