Canè
Non sono sbarcati qualche settimana fa da un gommone. Non fuggono da guerre o carestie. Non portano sul corpo i segni delle torture dei mercanti di uomini e degli scafisti. Cinque dei sei ragazzi che hanno ucciso in modo barbaro, selvaggio, il giovane Maati, hanno nomi stranieri, ma in 4 sono nati qui: Firenze, Prato, Bagno a Ripoli. Sono italiani. Seconda generazione di immigrati, certo, ma italiani. Allora, è giusto guardare ai nostri confini, presidiarli, far entrare solo chi è in regola, prosciugare il potenziale serbatoio di criminalità alimentato dagli ingressi clandestini, ma bisogna incominciare a vigilare altrettanto su chi ci abita a fianco. Vigilare, prevenire e capire perché questa generazione di figli dei gommoni, nati e cresciuti con noi, crea mostri come quelli che hanno ucciso Maati assieme a un ragazzo di cognome italiano. Intendiamoci. Una minoranza a fronte dei tanti, tantissimi, i più, che si comportano come e meglio di ragazzi con il marchio Doc, made in Italy, che a loro volta rubano, spaccano, uccidono. Gli assassini di Maati sono gli stessi delle banlieu di Parigi, Bruxelles, francesi, belgi di seconda o terza generazione, con la rabbia in corpo, il coltello e la droga in tasca. Fratelli o coinquilini del 63,8% degli ospiti del lager di Sollicciano. Si fa fatica a pensare che Campi, in questo caso, assomigli a quelle realtà. Firenze non è una metropoli in cui le periferie sono ghetti incontrollabili, le diverse origini barriere insuperabili. E’ una città media in cui i quartieri, gli abitanti spesso si fondono (si fondevano?). Eppure, il branco, la violenza, i racket, i Maati nascono e muoiono a due passi dal Duomo come dalla Tour Eiffel. Non lo scopriamo ora con la tragedia di Campi, che però certifica l’esistenza del fenomeno. Che altrove non ha ancora trovato una cura, un antidoto. E anche in questo Firenze non fa eccezione. Purtroppo.