Carlo Casini
Cronaca

Botteghe addio, è la società dell’usa e getta. Riparare mobili o pentole? Una missione quasi impossibile

Dagli orologi alle stoviglie: a Firenze poche botteghe sanno prendersene cura. La voce di chi resiste: “Di questo passo rimarranno solo i centri assistenza”

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Lorenzo Berlincioni (foto Giuseppe Cabras/New Press Photo)

Firenze, 7 ottobre 2024 – Sono sparite in silenzio, schiacciate dalla grande distribuzione, dai giganti dell’e-commerce, dal consumismo usa e getta, o dal cambiamento dei tempi. Sono quelle botteghe di vicinato che sapevano di segatura, ferro bruciato, grano, ognuna con i suoi rumori, la pialla, il soffio della fiamma ossidrica, i motori scarburati, lo zigare dei conigli, quando le strade di Firenze le riconoscevi dagli odori e dei suoni, ti affacciavi all’uscio di un negozio e si apriva un mondo di gesti lenti e sapienti.

Le botteghe diventano store di catene internazionali, tutti uguali, da New York a Berlino, da Milano a Firenze. E di quegli artigiani col grembiule sporco di colla, morchia, ci si ricorda d’improvviso, quando preso da un rigurgito di nostalgia o un bisogno inconsueto vai in quella bottega e trovi la serranda chiusa da anni, oppure un kebab, un distributore automatico, lo scintillante e asettico franchising. Alcuni sono spariti per l’evolversi delle tecnologie, vedi gli stampa foto, mosche bianche con l’avvento della fotografia digitale, o i videonoleggi, accoppati uccisi dalla pay tv.

Poi ci sono quelli spazzati via dal consumismo. Il caso da scuola è il falegname: mobile rotto, dove ripararlo? “Le grandi catene ci hanno accoppati: porte a 99 euro, mentre a me costava 120 solo il doppio placcato. Pensare che Firenze aveva le migliori falegnamerie del mondo, gli sceicchi volevano solo noi” spiega Luca Razzolini, storico falegname che anno scorso ha tirato giù il bandone ed è andato a godersi la pensione in Spagna. “Certo trovi ancora quello che si sa arrangiare, ma non è al mio livello. Nessuno lo vuole fare più, servono vent’anni per imparare e mettersi in proprio, se no sei un appiccicatore. E da operai si guadagna poco, non per colpa dei titolari, ma dello Stato: ci costano il doppio di tasse di quello che prendono, qui in Spagna 100 euro di marca al mese e basta. Chiaro che il mestiere in Italia sparirà”.

Ci accorgiamo di avere pure una pentola col manico rotto. Qui inizia l’ardua impresa per trovare uno stagnino: Google Maps neanche la conosce come categoria commerciale, riproviamo con la parola ‘saldatore’. L’algoritmo ci manda alla storica officina di Ponte alla Vittoria, conosciuta come marmittaio: “Io saldo tutto, dallo spillo al cannone – rompe il ghiaccio Andrea Esposito – qualsiasi metallo e oggetto. Aprì mio babbo nel ’65, ho iniziato a 14 anni e ora ne ho 57. È vero che per anni sono stati pochi quelli che portavano un pentolino a riparare, ma oggi sono riaumentati, sarà la miseria che ritorna”.

O forse anche la nuova coscienza ecologica, che ci fa pensare due volte prima di produrre un rifiuto: “Riparare, quando si può, è meglio che ricomprare”.

Altro test, l’orologio a pendolo dopo decenni di onorato servizio, si è fermato. Le orologerie non mancano a Firenze, ma alcuni mettono le mani avanti: “No, questo genere non sappiamo ripararlo” altri accettano, ma premettono che lo manderanno in un laboratorio specializzato. Insomma, sono pochi quelli che sanno ancora metterci le mani e tra questi Lorenzo Berlincioni in piazza della Federiga: “Non c’è stato ricambio generazionale, la scuola non c’è più e non c’è lavoro a sufficienza: poca gente ormai è disposta a farli riparare, un po’ per i costi, ma soprattutto perché non vanno di moda. C’è invece richiesta per l’orologio d’epoca, ricordo dei nonni, dei genitori. Piano piano però rimarranno grossi centri assistenza di marche rinomate che vogliono che passi tutto attraverso loro e andrà a sparire la botteghina”. E il più tradizionale dei negozi fiorentini, il civaiolo? I giovani neppure sanno più cosa sia. Addio vecchia Firenze.