Se i brand del lusso sfondavano nel mondo era - e sarebbe tuttora - grazie ai piccoli e piccolissimi laboratori che spesso anche in regime di esclusiva, per evitare di rubare il know-how, lavorano per i giganti Kering e Lvmh che hanno in pancia la maggior parte delle griffe italiane. C’è chi produce le catene delle borse di grido e piccola meccanica. Ma i più si occupano di pelle, cuoio e tessuti per i quali il distretto è famoso. Un mondo fatto di quasi 11mila imprese solo nel fiorentino. Se si ha il coraggio di entrare in boutique e fumarsi due mensilità e una tredicesima in un solo colpo, è sicuro che qualcosa di quel capo sia stato prodotto in provincia di Firenze in laboratori locali, o a trazione cinese. E quest’ultimo aspetto sta diventando un’altra parte del problema dopo l’ondata di indagini al nord sul caporalato, il grido di allarme sulle condizioni di lavoro negli scantinati usati per cucire, cucinare e dormire tutto insieme. E una Comunità europea che detta leggi sacrosante sulla carta, come il rispetto di parametri di impatto ambientale, sociale e di governance, ma si scorda che la ricaduta è anche su quanti non hanno ossigeno per permettersi un vero cambio di passo green.
Adesso che i mercati sono crollati (la pelle registra un calo a doppia cifra, il made in Italy sfiora il meno 10% ma singoli marchi hanno fatto un tonfo anche del 23%), soprattutto in Asia, dove la Cina ha inaugurato la stagione del luxury shame, (resiste e cresce chi ha puntato sugli Stati Uniti ma le elezioni in Usa e lo spettro dei dazi creano preoccupazioni) la filiera è andata in crisi. Firenze e la Toscana sentono che la situazione sta sfuggendo loro di mano se non si darà vita a una politica industriale in grado di far resistere i terzisti. Oggi - stime alla mano - hanno già chiuso qualcosa come 300 aziende e la necessità di cassa integrazione è raddoppiata in due mesi: da 9 a 16mila unità nel tempo di un’estate con la classe degli artigiani che ha accesso a una cassa di serie B.
Gli analisti stimano una ripresa del settore nella seconda parte del 2025, ma per allora ci saranno al massimo da raccogliere i cocci. I laboratori cinesi non fanno eccezione, anzi. Già molti, impegnati nel fast fashion, sono in difficoltà e le nuove politiche dei brand di concentrare la filiera in pochi e grandi terzisti e tenere fuori alcuni segmenti produttivi la situazione non è destinata certo a migliorare.