Cosimo
Ceccuti
A trent’anni di distanza dall’attentato del 27 maggio 1993 le immagini restano indelebili.
Fui su quei luoghi disastrati
con le macerie ancora fumanti: accompagnavo Giovanni Spadolini e il sindaco Giorgio Morales. Appresa la notizia Spadolini, presidente del Senato, aveva aperto alle 10
i lavori dell’assemblea, precipitandosi subito dopo verso i luoghi martoriati. "Parto per Firenze come fiorentino", annunciò a Palazzo Madama, anche se rappresentava ufficialmente il Presidente della Repubblica Scalfaro: niente e nessuno poteva impedirgli di raggiungere la sua città sfregiata. Via Lambertesca, quel che restava dell’Accademia; le macerie degli Uffizi, fra dipinti lesi e calcinacci, guidato da Antonio Paolucci, il corridoio Vasariano. In silenzio, nel rispetto delle vittime, quasi incredulo per l’efferata crudeltà del gesto, "una delle forme più aberranti della degradazione dell’umanità". In quella predeterminata esplosione, la mano criminale aveva mietuto innocenti, colpito opere d’arte, distrutto uno dei luoghi storici e più qualificanti, "in un intreccio di strade medioevali e rinascimentali ancora intatte". Spadolini aveva combattuto il terrorismo, ora però l’evidente impronta mafiosa era andata oltre, aveva investito il simbolo più alto della civiltà occidentale, della memoria storica, della tolleranza e della libertà. "Ma la città non si piega": fu il monito lanciato dal Professore dalle colonne del nostro giornale. Spadolini plaudiva con orgoglio all’"esemplare atteggiamento della popolazione fiorentina". Lo "spettacolo" del volontariato per ridurre le conseguenze del disastro ricordava il secondo dopoguerra e l’alluvione. Si doveva, su quegli esempi, reagire ed agire. A Dublino, l’indomani, Spadolini avrebbe richiamato l’attenzione dell’Europa sulla "tragedia di Firenze", chiedendo un impegno comune per fronteggiare la "nuova strategia della tensione", messa in atto dalla mafia per screditare lo stato.