Spadolini, un grande tra i grandi. Guidò l’Italia sognando Firenze

Della città in cui era nato condivideva la tolleranza e l’ironia. Ma il desiderio di fare il sindaco restò inappagato

di Cosimo

Ceccuti

Un intenso vincolo affettivo, il suo, culturale e civile, con la "patria dell’anima", come amava definirla. In un rapporto talora tormentato, ispirato a un sentimento di orgogliosa appartenenza. Da Firenze bisogna uscire, ma non si può fare a meno di tornare. E tornava sempre, direttore di quotidiani o titolare di alte cariche politiche e istituzionali, avvertendo il bisogno dell’"aria pura" dei suoi libri. Fiorentino, portato al dialogo e alla tolleranza, si riconosceva nel carattere dei suoi concittadini. Ben consapevole del loro senso del "limite", cosciente di quel "provvisorio" che è la storia, ne condivideva la passione per la vita civica in senso laico e democratico, nonché la vena di costante pessimismo alle origini del gusto della beffa, dell’ironia e della satira. La stessa attitudine alle arti figurative e alla scienza fisica che spiega i miracoli del genio fiorentino, da Dante a Michelangelo – osservava lo statista – nasce dall’amore della realtà. La Firenze di Spadolini, nato e vissuto a lungo in via Cavour, era il vecchio centro con i librai oggetto delle costanti visite e investimenti (resta ancora Giorni, nello scantinato accanto al suo liceo, il Galileo), i locali storici, i rigattieri e gli antiquari, alla ricerca di qualche "pezzo" per le sue collezioni napoleoniche e risorgimentali, le botteghe, gli artigiani, gli artisti. Quando, come suo assistente, facevo le ricerche di base in archivio, che poi il Professore elaborava per le sue opere, era solito ripetermi: "Noi siamo come le antiche botteghe fiorentine: tu, alla maniera di Filippino Lippi, spargi i colori sulla tela, Filippo, il maestro, con pochi colpi di pennello crea il capolavoro". Oggi mancano tante botteghe di una volta.