Marradi (Firenze), 19 settembre 2023 – La testolina tigrata di Menta ha rifatto capolino a casa a metà giornata quando il cielo di latte giallo del fondovalle, fradicio di un’umidità impastata da un ballo di spettri e sollievi incrociati, teneva ancora fermi i respiri della gente di Marradi.
Il fiato violento della terra arcigna dell’alto Mugello – che ha soffiato dalle viscere alle 5 e 10 del mattino – le aveva strapazzato il saggio sonno felino e lei era corsa via. Anche lei. Spaventata a morte. Quando la gatta è tornata ieri forse qualcuno in paese ha pensato che il peggio fosse passato. Alle volte i segnali di speranza si cercano con una forza che non è razionale, è intima piuttosto. Certo, dignitosa.
Come la gente di qui, toscana d’anagrafe e romagnola d’indole, assiepata in un paese bello e saldo, perfino istrionico. A queste latitudini si sono forgiati i pensieri randagi e geniali di Dino Campana che la Firenze spocchiosa di inizio Novecento sbeffeggiò con quella perifidia snob che a volte non riesce proprio ad abbottonarsi. Ma è sempre stata lontana d’altronde, Firenze, da quassù.
Marca il confine solo per un capriccio geografico ma le curve da sterzate dure del passo della Colla in fondo al quale spunta Marradi, quando si arriva qui hanno già sbucciato come una castagna la ’c’ aspirata essiccandola e poi facendola rotonda.
Eppure il terremoto ieri ha svegliato anche Firenze, la Lontana. Hanno ballato un po’ i lampadari in città, a Borgo, nel primo Mugello la gente è saltata sui cuscini, quassù invece il rombo della terra ha ruggito con i polmoni gonfi e cattivi, ha rovesciato piatti, bicchieri, quadri, ha scartato calcinacci dai palazzi, ha tramortito le piccole chiese.
«Io mi sentivo qualcosa dentro, Lucia, mi sentivo qualcosa dentro la sera prima» dice una signora bionda al cellulare in piazza. Premonizioni, preghiere e paure. «Un boato dalle viscere e poi il letto mia ha spinto in avanti». Marradi si spolvera le ginocchia e si rimette in piedi, magari appoggiata al bancone del bar. «Stamani alle sei aveva già fatto duecento caffè, ci ha guadagnato almeno lui...» scherza Luciano muovendo la testa verso l’amico gestore. «Ah beh, sembrava di essere alla Fiera alle cinque di mattina».
Passano le ore, la terra gioca a fare un altro centinaio di pizzicotti sotto i piedi, ma la gente di Romagna non scopre affatto il fianco e sfida il destino con il sarcasmo di chi ha già visto le sue montagne esplodere d’acqua, le sue strade sbriciolarsi come biscotti, la sua fabbrica di cioccolata rischiar d’essere spedita al nord. Lo fa il ragazzo al bar che dice: «Ma son ripartiti i treni? Meno male. Già che quassù non passano mai...».
«Stanotte dormo in taverna, al massimo mi cade il prato addosso» dice Luciano al bar che «una botta così mica l’ho mai sentita». Si balla ancora, ma se si balla tutti insieme il rischio di cadere è minore. Non è una teoria scientifica, piuttosto la sensazione, detta sottovoce, di essere una comunità.