All’orrore delle leggi razziali e delle deportazioni, la Firenze solidale ebbe il coraggio di dire no. Dopo l’8 settembre ’43, di fronte all’evidenza delle catture e dei campi, il rabbino capo di Firenze, Nathan Cassuto e il cardinale Elia Dalla Costa insieme al pastore evangelico Tullio Vinay misero in piedi una rete d’assistenza. Il primo atto fu quello di pensare ai bambini, affidati a dei centri di raccolta. È qui che comincia la storia di Umberto Di Gioacchino. Aveva due anni, nato il 6 ottobre 1941, venne consegnato dai familiari al convento di Santa Marta a Settignano. Gli occhi ricordano poco i dettagli, ma Di Gioacchino è stato in grado di ricostruire, parlare coi protagonisti che gli hanno salvato la vita. Oggi ne racconta le storie. "La modalità – ci ha detto – era quella della madre nubile che ‘pentita’ del suo peccato lasciava il figlio in convento. Le suore di Santa Marta hanno salvato così più di cento ragazzini; la superiora e altre religiose ora sono Giuste tra le nazioni". Le suore cambiarono i nomi ai ragazzi per non destare sospetti; la casa del fascio era accanto e una volta ci fu un tentativo di rastrellamento alla ricerca dei figli del rabbino di Genova Riccardo Pacifici (deportato ad Auschwitz non fece mai più ritorno). "I fascisti si presentarono – racconta Di Gioacchino – chiedendo di consegnare i bambini ebrei. Dissero di aver sentito un cognome ricorrente, Pacifici. Ma la suora che aveva aperto disse loro che si trattava di un’esortazione ai ragazzi, a fare meno confusione. Non so se ci credettero, ma tornarono sui loro passi".
Finita la guerra, Umberto Di Gioacchino si riunì ai genitori, rimasti nascosti fino all’aprile 1944. Tornarono a vivere nella loro casa fiorentina in ottobre. Suo zio era il rabbino Cassuto. Traditi da un delatore, Cassuto, la moglie Anna con la nonna vennero deportati ad Auschwitz. La nonna morì nel campo polacco, Cassuto e la moglie vennero spostati, quei trasferimenti sono passati alla storia come le marce della morte. Il rabbino finì i suoi giorni a Gross Rosen. La moglie riuscì a sopravvivere e venne liberata dagli alleati a Terezin; trasferita in Palestina, Anna, venne uccisa tre anni dopo, il 13 aprile 1948, durante un attacco a un convoglio medico durante la guerra d’indipendenza d’Israele. "A casa nostra – racconta Umberto Di Gioacchino – non si parlava di Shoah. Ma ci sono alcuni episodi che mi sono rimasti in mente. Eravamo al mare; ci aveva portati uno dei soldati della brigata ebraica che erano arrivati a Firenze per riaprire la sinagoga. Anna gli disse: ‘Pensavo che non l’avrei più rivisto’. Non riuscivo a capire perché parlasse così. E non riuscivo a capire perché piangesse sempre quando alla radio sentiva la canzone ‘mamma’ di Beniamino Gigli. Se è così brutta, pensavo, perché non cambia canale. Ho capito quelle lacrime, poi, da grande". Oggi Umberto Di Gioacchino è uno dei punti di riferimento della comunità ebraica, porta la sua testimonianza nelle scuole: "C’era l’abisso, ma ci furono anche persone capaci di opporvisi".
Fabrizio Morviducci