MARCO
Cronaca

Un incontro al Père-Lachaise. Poi con i dubbi per tutta Parigi

Uno sguardo davanti al sepolcro di Abelardo ed Eloisa e il lungo peregrinare per le strade della Ville Lumière

Vichi

La fitta al piede mi fece l’effetto di una droga. Mi alzai dal letto, infiammato di lucidità. Il cuore mi gonfiava il torace di battiti oleosi e lenti. Mi pigiai forte i bulbi degli occhi e provai a telefonare per l’ulama volta. Ancora occupato. Bene, ci vado, mi dissi. Rue Sorbier non era lontana.

Quattro fermate di metrò , nemmeno un quarto d’ora a piedi. Ci vado. M’infilai il giubbotto. Tirando su la cerniera sentii salirmi addosso un formicolio di ansia. Ci vado lo stesso, mi dissi. Chiusi le tre serrature e imboccai le scale. Dovetti fermarmi a metà di una rampa, avevo male alle caviglie, vampate calde e fredde allo snodo del piede. Forse stavo facendo qualcosa che era meglio non fare.

Non andare, mi dicevo, vai a farti una birra da Pierre, non andare da lei. Aprii il portone sulla strada sognando di trovarla seduta sul gradino ad aspettarmi, "ciao amore, ho dimenticato il codice, sono qui dalle tre". Fantascienza. L’unica cosa vera era il freddo secco che mi gelava i polpacci. Un tipo appoggiato al muro mi chiese un euro per andare a bere, gliene misi in mano tre, ero agitato e volevo essere amico del mondo.

Lui balbettò un lamento pestilenziale di ringraziamento, gli feci un cenno con la mano e continuai per la mia strada. Non andare, continuavo a dirmi. Non sapevo quasi nulla di lei, l’avevo incontrata un paio di settimane prima davanti alla tomba di Abelardo e Eloisa, a Père-Lachaise. Lei era rimasta stupita dall’espressione che avevo sul viso davanti a quella tomba, e si era messa a ridere. Non avevo perso l’occasione e avvicinandomi le avevo detto qualcosa di stupido, solo per cominciare a parlare. Aveva una testa magnifica, avvolta da una grande massa di capelli neri. Andava al cimitero a leggere, seduta in mezzo alle croci. Conosci la storia di questi due amanti, le avevo chiesto. Aveva detto di no con un piccolo movimento della testa.

Mi ero seduto accanto a lei e le avevo raccontato con poche parole quella storia d’amore triste, vecchia di secoli ma ancora magica. I suoi enormi occhi arabi, neri e tragici, erano aperti su di me. Occhi collegati al cuore. Raccontando la terribile storia dei due amanti medievali, la guardavo.

Naso sottile, nobilitato da un’imperfezione a metà del setto. Bocca liscia, precisa come un taglio di coltello. Ascoltandomi a volte sorrideva, con il libro ormai chiuso sulle ginocchia nude. Mi piacevano le sue scarpette verdi un po’ consumate. La sera ci eravamo ritrovati a letto, così, in modo naturale, come un calvados a fine cena. Camminando rivedevo ogni momento. Il cielo era grigio parigino. Si gelava. Imboccai il boulevard de Belleville e mi fermai a massaggiarmi le gambe, erano fredde. Quando ripresi a camminare sentii le rotule che scricchiolavano. Non andare, continuavo a dirmi, meglio una birra da Pierre, molto meglio. Il poco calore che avevo ancora nel corpo mi usciva dalla bocca sotto forma di vapore. Aziza. Tunisina. A metà strada mi sedetti in un caffè a riflettere, davanti a un bicchiere di vodka. Forse era meglio tornare a casa, mi dicevo. Eppure sapevo che sarei andato avanti. Mi capitava spesso di fare qualcosa sapendo che non andava fatta. Pagai e uscii nel freddo. La vodka aveva acceso un fuoco leggero nella mia pancia, che lentamente si propagava a tutto il resto. Gran popolo i russi. Mi sentivo meglio, molto meglio, ero quasi allegro. Ma il cuore mi batteva forte, lo sentivo dappertutto, soprattutto in fondo alla gola.

Salendo rue de Menilmontant ascoltavo le voci nordafricane che mi sfilavano accanto, scrutavo gli occhi di ebrei silenziosi, m’incantavo ogni secondo a guardare bambini di ogni sfumatura di colore. Le luci forti dei negozi brillavano sui denti bianchi dei magrebini e sbiancavano i visi pallidi dei bianchi. Aziza, mi vuoi o no. Mi fermai davanti a un bazar a prendere fiato. Mutande, batterie, lampadine, vasi, tappeti, Opinel, veli colorati e scacchi tascabili, raccoglibriciole e maschere per la notte, e migliaia di altre cose di ogni tipo e grandezza, tutto ammassato insieme nelle ceste lungo i marciapiedi, proprio come le cento razze che si mescolavano nelle strade. Aziza. Lei tunisina, io italiano. Come potevamo capirci. Potevamo fare l’amore in mille modi, ma non capirci. Così pensavo in quel momento, ma era la prima volta, prima di quel giorno tutto mi sembrava possibile. Guardai dritto nella vetrina e vidi la mia faccia. Erano anni che avevo smesso di piacermi.

(1-continua)